Ciò che torna alla memoria è il gesto con cui la nonna aveva sciolto le scarpe del nipote, proprio come dice, in negativo, san Giovanni Battista: «Dopo di me verrà qualcuno cui non sono nemmeno degno di sciogliere i legacci dei sandali».22 E così, attraverso il Battista, sempre al Battesimo e al perdono siamo ricondotti. Rientrano in questa intensa adesione a una sensibilità giudaico-cristiana le stupefacenti pagine sull’insostituibile necessità del dolore per la creazione artistica, che sembrano scritte da qualche mistico cristiano del Medioevo o da San Giovanni della Croce. Si tratta infatti di una rivisitazione laica di ciò che nel linguaggio cattolico è chiamato “esaltazione della Croce”.
Le teorie estetiche elaborate dal Narratore mentre, nella biblioteca del principe di Guermantes, attende che finisca l’esecuzione di un brano musicale meriterebbero poi un’attenta analisi. Qui basti dire che non mancano alcune antinomie sia su singoli punti sia sul piano generale giacché due filosofie diverse sono giustapposte: prima il pensiero negativo e tendenzialmente antirazionalista che Proust eredita dalla fase decadente-simbolista della cultura francese ed europea del secondo Ottocento (il Proust della memoria involontaria che è proteso verso la cattura dell’ineffabile e di ciò che ha «la durata d’un lampo»); e poi una concezione più ampia, più unitaria e totalizzante, tendente al superamento dell’antitesi tra individuo e realtà, per certi aspetti quindi restauratrice ma per altri innovativa e aperta verso le nuove esperienze e avventure dello spirito nel XX secolo. Forse non è sbagliato dire che il Narratore e lo scrittore compiono due percorsi simili ma in direzioni opposte. Il primo va dall’idolatria dell’oggetto verso un sempre più radicale soggettivismo. Il secondo invece, anche semplicemente per poter narrare in tutte le sue dimensioni questo itinerario, deve abbandonare il soggettivismo decadente della giovinezza recuperando un rapporto positivo con la sfera oggettiva, senza il quale nessun romanzo-mondo potrebbe mai nascere.
Proust cerca di dedurre alcune indicazioni sul piano della poetica del romanzo a partire da un fondamentale teorema di carattere sia esistenziale sia estetico: la distinzione tra due livelli dell’esperienza, uno più superficiale e artificiale, l’altro più profondo e autentico. Quest’ultimo è invisibile per i più, ma l’artista può giungervi purché si soffermi su ciò che è simile in esperienze distinte, cioè sulla loro comune essenza. A tale procedimento, che ricorda l’estetica del classicismo, con un pizzico di arbitrarietà lo scrittore dà il nome di “metafora”. Da qui discendono, secondo Proust, alcuni corollari, per lo più in negativo: illustrano “ciò che non vogliamo”, gli errori da evitare, non le strade da seguire. E ci sono critiche severe per quasi tutte le tendenze. Proust rifiuta l’arte realista e qualunque scelta di poetica basata sull’impegno, sull’engagement. Condanna l’arte popolare e quella patriottica. Demolisce la tesi secondo cui gli artisti dovrebbero scegliere temi di ampio respiro e di alta ispirazione morale, sociologica, storica. Definisce con sarcasmo questi scrittori «materialisticamente spiritualisti». Simmetricamente, si scaglia contro la più leggera “letteratura di notazione” che si accontenta di offrirci delle pennellate intrise di esperienza vissuta, e mette in guardia contro l’idea che la letteratura del nuovo secolo debba prendere a modello il cinema, ridursi cioè a puro racconto e a descrizione esteriore.
L’altra grande placca tettonica che conclude la Ricerca del tempo perduto è quello che Proust chiamava il «bal de têtes», un’espressione intraducibile in italiano, che in francese indica una festa in maschera in cui gli abiti sono normali e soltanto i volti sono irriconoscibili. Come scrisse giustamente il già ricordato Beckett, «dalla vittoria sul Tempo Proust passa alla vittoria del Tempo, dalla negazione della Morte alla sua affermazione».23 E potremmo citare anche Pascal: «Per quanto la commedia sia stata bella in ogni sua parte, l’ultimo atto è insanguinato. Alla fine ci gettano un po’ di terra sulla testa ed eccoci sistemati per sempre».24 Queste pagine comunicano un crescente sentimento di desolazione. Si incupisce la verve comica dello scrittore e, come sul volto di Gwynplaine (L’uomo che ride di Victor Hugo), dietro al riso si intravede una smorfia di dolore. La negatività non è nemmeno riscattata dalle lacrime, perché non c’è vera commozione. Vecchiaia e morte trionfano nella loro grigia banalità, ed è ben poco consolante la bella metafora finale degli uomini montati su alti trampoli (da cui improvvisamente precipitano) perché immersi nella quarta dimensione del Tempo. A differenza che nella Nona Sinfonia di Beethoven, c’è davvero poca gioia in questo finale. Il romanzo di Proust, che di norma è così pieno di allegria, si conclude con un lungo “Inno all’angoscia”, e ciò è tanto più strano in quanto, dopo il trionfale grido di vittoria che aveva introdotto il ricordo di Venezia («abbiamo bussato a tutte le porte che non danno su niente e la sola attraverso la quale si può entrare, e che avremmo cercato invano per cento anni, l’urtiamo senza saperlo, e si apre») il lettore si era illuso che fosse stata miracolosamente raggiunta una “salvezza”. Quando il Narratore entra nel salotto del principe, ha piena coscienza che si stia verificando «un colpo di scena capace di sollevare contro la mia impresa la più grave delle obiezioni. Un’obiezione che avrei superata, certo [...]». Ma i successivi incontri e le connesse riflessioni del protagonista costituiscono veramente un convincente “superamento” di quell’obiezione? Propenderei per una risposta negativa e tenderei quindi a pensare che egli voglia affidare a noi lettori il proseguimento della “ricerca” e il compito di trovare la soluzione perduta.
Alberto Beretta Anguissola
1 Proust aveva lasciato bianche le pagine di sinistra dei quaderni, proprio per potervi scrivere le aggiunte. Quando lo spazio non era sufficiente, incollava delle paperolles, ripiegate a fisarmonica.
2 P. Clarac e A. Ferré, che curarono la prima edizione «Pléiade» del 1954, scelsero invece di anticipare la cesura per non spezzare a metà il soggiorno del Narratore a Tansonville. Preferirono far iniziare Il Tempo ritrovato al capoverso «Non sarebbe comunque il caso di indugiare» (p.
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