Beretta Anguissola, Il lato ebraico della pietra, in AA.VV., La “Recherche” tra Apocalisse e salvezza, a cura di D. De Agostini, Schena, Fasano 2005, pp. 15-22.
22 Mt 3,11; Lc 3,16; Mc 1,7; Gv 1,27.
23 S. Beckett, op. cit., p. 74.
24 B. Pascal, Pensieri, frammento 154, trad. di B. Nacci, Garzanti, Milano 1994, p. 66.
IL TEMPO RITROVATO
La traduzione di Giovanni Raboni segue il testo francese pubblicato in quattro volumi sotto la direzione di Jean-Yves Tadié (M. Proust, À la recherche du temps perdu, vol. IV, «Bibliothèque de la Pléiade», Gallimard, Paris 1987). Per Le Temps retrouvé Tadié si è valso della collaborazione di Pierre-Louis Rey, Pierre-Edmond Robert, e Brian Rogers.
Tutto il giorno, in quella casa un po’ troppo campagnola che non sembrava niente più d’un luogo di siesta fra una passeggiata e l’altra o durante un acquazzone, una di quelle case dove ogni salotto fa pensare a una pergola e dove, sulla tappezzeria delle camere, in una le rose del giardino, nell’altra gli uccelli degli alberi vi hanno raggiunti e vi fanno compagnia – uno per uno, almeno – perché erano vecchie tappezzerie dove ogni rosa era così separata dall’altra che si sarebbe potuto, se fosse stata viva, coglierla, ogni uccello metterlo in gabbia e addomesticarlo, senza niente di quelle grandi decorazioni delle camere d’oggi, dove su un fondo d’argento tutti i meli di Normandia son venuti a profilarsi in stile giapponese per allucinare le ore che trascorrete a letto; tutto il giorno lo passavo nella mia camera, che dava sul bel verde del parco e i lillà dell’ingresso, le foglie verdi dei grandi alberi in riva all’acqua, scintillanti di sole, e la foresta di Méséglise. Tutte queste cose, in fondo, le guardavo con piacere solo perché mi dicevo: «È bello vedere tanto verde dalla finestra della mia camera», fino al momento in cui nel vasto quadro verdeggiante non riconobbi – dipinto invece, lui, d’azzurro cupo, per la semplice ragione che era più lontano – il campanile della chiesa di Combray. Non una raffigurazione di quel campanile, proprio il campanile che, mettendomi in tal modo sotto gli occhi la distanza dei luoghi e degli anni, era venuto, in mezzo al verde luminoso e in un tono affatto diverso, talmente scuro che sembrava quasi soltanto disegnato, a inscriversi nel riquadro della finestra. E bastava che uscissi un momento dalla camera per scorgere in fondo al corridoio, orientato diversamente, la striscia scarlatta della tappezzeria d’un salottino: una semplice mussolina, ma rossa, e pronta a incendiarsi se vi batteva un raggio di sole.
Durante quelle passeggiate, Gilberte mi parlava di Robert come se stesse allontanandosi da lei, ma per correre dietro ad altre donne. Ed è vero che la sua vita ne era piena, come di certe compagnie maschili la vita degli uomini a cui piacciono le donne, con quel carattere di difesa vana e di posto inutilmente usurpato che hanno, nella maggior parte delle case, gli oggetti che non servono a niente. A Tansonville venne, mentre ero là, parecchie volte. Era molto diverso da come l’avevo conosciuto. La sua vita non l’aveva ingrossato, rallentato come il signor di Charlus, ma al contrario, operando in lui un mutamento inverso, gli aveva dato l’aspetto disinvolto d’un ufficiale di cavalleria (sebbene, al momento di sposarsi, si fosse messo in congedo) come mai l’aveva avuto. A mano a mano che Charlus s’appesantiva, Robert (che era, certo, infinitamente più giovane – ma si sentiva che con l’età non avrebbe fatto che avvicinarsi ulteriormente a quell’ideale, come certe donne che sacrificano risolutamente il viso alla figura e da un certo punto in poi non si muovono più da Marienbad, pensando che, se non è possibile conservare più giovinezze insieme, quella della linea sarà comunque la più adatta a rappresentare le altre) s’era fatto più slanciato, più rapido, effetto opposto d’un medesimo vizio. Questa velocità aveva, del resto, varie ragioni psicologiche, il timore d’esser visto, il desiderio di non lasciar trasparire tale timore, l’agitazione febbrile che nasce dalla scontentezza di sé e dalla noia. Aveva l’abitudine d’andare in certi postacci nei quali, poiché preferiva che non lo si vedesse né entrare né uscire, si precipitava, non diversamente da come ci si lancia all’attacco, per offrire la minor superficie possibile agli sguardi malevoli di ipotetici passanti. E quell’andatura da colpo di vento gli era rimasta. Essa, forse, schematizzava anche l’apparente intrepidezza di chi vuol mostrare che non ha paura e non vuol concedersi il tempo di riflettere. Bisognerebbe, per completezza, prendere in considerazione il desiderio, via via che invecchiava, di apparire giovane, e anche l’impazienza di quelle creature sempre annoiate, sempre disincantate, che sono le persone troppo intelligenti per la vita relativamente oziosa che conducono, nella quale le loro facoltà restano irrealizzate. È probabile che l’ozio stesso possa manifestarsi, in costoro, come disinvoltura. Ma, soprattutto da quando gli esercizi fisici godono di tanto favore, l’ozio ha preso, anche al di fuori delle ore di sport, una forma sportiva, che si traduce non più in indifferenza, ma in una vivacità febbrile che crede di non lasciare alla noia né il tempo né lo spazio per svilupparsi.
La mia memoria – persino la memoria involontaria – aveva perduto l’amore di Albertine. Ma sembra che vi sia, pallida e sterile imitazione dell’altra, una memoria involontaria delle membra, la quale vive più a lungo, come certi animali o vegetali privi di intelligenza vivono più a lungo dell’uomo. Le gambe, le braccia sono piene di ricordi in letargo.
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