Una volta che m’ero congedato da Gilberte piuttosto presto, mi svegliai in piena notte nella camera di Tansonville e, ancora mezzo addormentato, chiamai: «Albertine». Non che avessi pensato a lei, né sognato di lei, né che la scambiassi con Gilberte: una reminiscenza sbocciata nel mio braccio m’aveva fatto cercare il campanello dietro di me come nella mia camera di Parigi. E non trovandolo avevo chiamato: «Albertine», credendo che la mia amica defunta si fosse messa a letto accanto a me, come faceva spesso la sera, e ci fossimo addormentati insieme, contando al risveglio sul tempo che Françoise ci avrebbe messo ad arrivare perché Albertine potesse senza imprudenza tirare il campanello che io non riuscivo a trovare.

Diventato – almeno durante questa fase incresciosa – molto più brusco, Robert non dava quasi più prova di sensibilità nei confronti degli amici, per esempio nei miei. In compenso, aveva con Gilberte delle affettazioni di sensibilismo, spinte fino alla commedia, che indisponevano. Non che Gilberte, in realtà, gli fosse indifferente. Anzi, la amava. Ma le mentiva di continuo; la sua doppiezza, se non il fondo delle sue menzogne, era perennemente allo scoperto. E gli sembrava dunque di non potersela cavare se non esagerando in proporzioni ridicole la reale tristezza che gli veniva dal far soffrire Gilberte. Arrivava a Tansonville costretto, diceva, a ripartire la mattina dopo per un certo affare con un signore del paese che, secondo lui, lo aspettava a Parigi, e che, incontrato per l’appunto in serata vicino a Combray, rivelava senza volerlo la menzogna, di cui Robert non s’era curato di metterlo al corrente, dichiarando d’essere venuto lì a riposarsi e di non voler tornare a Parigi prima d’un mese. Robert arrossiva, vedeva il sorriso malinconico e fiero di Gilberte, si sbarazzava del gaffeur insultandolo, tornava a casa prima della moglie, le faceva avere un biglietto in cui diceva d’aver mentito per non darle un dispiacere, perché lei, vedendolo ripartire per una ragione che non poteva dirle, non credesse che non l’amava (e tutto ciò, sebbene lo scrivesse come una menzogna, era in fin dei conti vero), dopodiché le faceva chiedere se poteva andare in camera da lei e là – un po’ tristezza vera, un po’ snervamento di quella vita, un po’ simulazione ogni giorno più audace – scoppiava in singhiozzi, si inondava d’acqua fredda, parlava della propria morte vicina, a volte crollava sul pavimento come in preda a un malore. Gilberte non sapeva fino a che punto dovesse credergli, supponeva che Robert mentisse in ogni caso particolare ma che, in linea generale, la amasse, e si preoccupava, pensando che fosse effetto di una malattia che lei ignorava, di quel presentimento d’una morte vicina, e così non osava contrariarlo chiedendogli di rinunciare ai suoi viaggi.

Tanto meno, del resto, capivo perché ne facesse, visto che Morel era ricevuto, assieme a Bergotte, come uno di famiglia ovunque fossero i Saint-Loup, a Parigi come a Tansonville. Morel imitava Bergotte a meraviglia. In breve tempo, non ci fu più nemmeno bisogno di chiedergli che lo imitasse. Come gli isterici che non occorre più addormentare perché si trasformino in questa o quella persona, entrava nel personaggio da solo e in un sol colpo.

Françoise, che dopo aver visto tutto ciò che il signor di Charlus aveva fatto per Jupien vedeva tutto ciò che Robert de Saint-Loup faceva per Morel, non ne concludeva che fosse una caratteristica ricorrente nei Guermantes a distanza di generazioni, ma – visto che anche Legrandin aiutava molto Théodore – aveva finito col credere, lei persona tanto morale e con tanti pregiudizi, che si trattasse di un’usanza resa rispettabile dalla sua universalità. D’un giovane, si trattasse di Morel o di Théodore, diceva sempre: «Ha trovato un signore che si è sempre interessato a lui e lo ha tanto aiutato». E siccome in tali casi i protettori sono quelli che amano, che soffrono, che perdonano, Françoise non esitava, fra loro e i minorenni che sviavano, a dare a loro il ruolo più nobile, a trovare che avevano «tanto cuore». Biasimava senza esitazioni Théodore, che ne aveva fatte di tutti i colori a Legrandin; eppure mostrava d’avere ben pochi dubbi sui loro rapporti, dal momento che aggiungeva: «Allora il ragazzo ha capito che doveva pur metterci qualcosa di suo e gli ha detto: “Prendetemi con voi, vi vorrò bene, vi coccolerò”, e il signore, parola mia, ha così tanto cuore che di sicuro Théodore è sicuro di trovare vicino a lui forse più di quel che merita, perché è una testa matta, quello lì, ma il signore è così buono che io glielo dico sempre a Jeannette (la fidanzata di Théodore): “Ragazza mia, se mai vi trovate nei guai, andate da quel signore. Si metterebbe a dormire per terra, piuttosto, e vi darebbe il suo letto. Gli ha voluto troppo bene al ragazzo (Théodore) per cacciarlo fuori. C’è da scommettere che non lo abbandonerà mai”».

Per cortesia, chiesi a sua sorella quale fosse il cognome di Théodore, che adesso viveva nel Mezzogiorno. «Ma è stato lui a scrivermi per il mio articolo sul “Figaro!”» esclamai quando seppi che si chiamava Sautton.

Analogamente, Françoise stimava Saint-Loup più di Morel, e riteneva che malgrado tutti i tiri che il ragazzo (Morel) gli aveva giocato, il marchese non lo avrebbe mai lasciato nei guai, perché era un uomo che aveva troppo cuore, a meno che non si fosse trovato lui stesso in chissà quali difficoltà.

Robert insisteva perché io rimanessi a Tansonville, e una volta, sebbene non cercasse visibilmente più di farmi piacere, si lasciò sfuggire che la mia venuta era stata per sua moglie una gioia tale che era rimasta, a quanto gli aveva detto, ebbra di gioia per tutta una sera, una sera in cui si era sentita tanto triste che io, arrivando all’improvviso, l’avevo miracolosamente salvata dalla disperazione, «forse», aggiunse Robert, «da qualcosa di peggio». Mi chiedeva che tentassi di persuaderla del suo amore, dicendomi che la donna che pure amava l’amava meno di lei, e presto l’avrebbe lasciata. «Eppure», aggiungeva, con una tale fatuità e un tale bisogno di confidenza da farmi credere, a tratti, che il nome di Charlie sarebbe “uscito” suo malgrado come il numero d’una lotteria, «avevo di che essere orgoglioso. Questa donna che mi dà tante prove di tenerezza, e che sto per sacrificare a Gilberte, non s’era mai interessata a un uomo, si credeva incapace di innamorarsi. Io sono il primo. Si era rifiutata a tutti, e io lo sapevo, al punto che quando ho ricevuto la lettera adorabile in cui mi diceva di non poter essere felice se non con me, non riuscivo a crederci. Ci sarebbe, è chiaro, di che perdere la testa, se il pensiero di vedere in lacrime quella povera, cara Gilberte non mi fosse intollerabile. Non trovi che abbia qualcosa di Rachel?» mi chiedeva. E, in effetti, ero rimasto colpito da una vaga somiglianza che era adesso possibile, a rigore, scorgere fra le due donne. Forse dipendeva da una reale affinità di alcuni tratti (dovuti per esempio all’origine ebraica, per altro così poco marcata in Gilberte), affinità per la quale Robert, quando la sua famiglia aveva voluto che si sposasse, si era sentito maggiormente attratto, a parità di patrimoni, verso Gilberte.