Ma anche dal fatto che Gilberte, avendo trovato delle fotografie di Rachel di cui aveva ignorato persino il nome, cercava di imitare, per piacere a Robert, certe abitudini care all’attrice, per esempio quella d’avere sempre dei nastri rossi fra i capelli e uno di velluto nero al braccio, e si tingeva i capelli per sembrare bruna. Rendendosi conto, poi, che i dispiaceri le davano una brutta cera, cercava di porvi rimedio. A volte lo faceva senza misura. Un giorno che Robert doveva venire a Tansonville per passarvi ventiquattro ore, rimasi stupefatto vedendola arrivare a tavola così stranamente diversa non solo da come era stata un tempo, ma da com’era di solito, che ne fui stupefatto come se avessi avuto di fronte a me un’attrice, una specie di Teodora. Mi accorgevo di guardarla, mio malgrado, troppo fissamente, curioso di sapere cosa vi fosse in lei di tanto mutato. La mia curiosità, d’altronde, fu presto soddisfatta quando Gilberte si soffiò il naso, e nonostante tutte le precauzioni con cui lo fece. Da tutti i colori che rimasero sul fazzoletto, facendone una ricca tavolozza, vidi che era completamente dipinta. Per questo aveva quella bocca insanguinata che si sforzava di rendere sorridente e che credeva le stesse bene, mentre l’avvicinarsi dell’ora del treno senza che Gilberte sapesse se il marito sarebbe davvero arrivato o avrebbe invece mandato uno di quei telegrammi di cui il signor di Guermantes aveva spiritosamente fissato il modello – “impossibile venire, segue bugia” – faceva impallidire le sue guance sotto il sudore viola del trucco e le cerchiava gli occhi.
«Ah!», mi diceva Robert con un tono volutamente tenero che tanto contrastava con la tenerezza spontanea d’una volta, una voce da alcolizzato e modulazioni da attore, «la felicità di Gilberte, non c’è niente, vedi, che non le sacrificherei! Lei ha fatto tanto per me. Non puoi sapere.» E la cosa più spiacevole, in tutto questo, era ancora l’amor proprio, perché essere amato da Gilberte lo lusingava, e non osando dire che era Charlie che amava, dava tuttavia, dell’amore che attribuiva al violinista nei suoi confronti, certi dettagli che lui stesso sapeva esagerati se non inventati di sana pianta, lui al quale Charlie chiedeva ogni giorno sempre più denaro. Ed era affidandomi Gilberte che ripartiva per Parigi.
Per anticipare un po’, visto che sono ancora a Tansonville, ebbi del resto l’occasione di vederlo una volta, e da lontano, in società, dove la sua conversazione malgrado tutto viva e affascinante mi permetteva di ritrovare il passato; fui colpito da quanto cambiasse. Somigliava sempre di più a sua madre, il tratto di sveltezza altera che aveva preso da lei, e che in lei era perfetto, in lui, grazie alla più raffinata delle educazioni, diventava eccessivo, si irrigidiva; l’acutezza penetrante dello sguardo, tipica dei Guermantes, gli dava l’aria di ispezionare tutti i luoghi per cui passava, ma in modo quasi inconscio, come per un’abitudine o una particolarità animale. Anche immobile, il colore che apparteneva a lui più che a qualsiasi altro Guermantes gli conferiva, per non esser che l’oro d’una giornata di sole appena solidificato, una sorta di così strano piumaggio, faceva di lui una specie così rara, così preziosa, che si sarebbe voluto possederlo per una collezione ornitologica; ma quando, in più, questa luce mutata in uccello si metteva in movimento, in azione, e vedevo per esempio Robert de Saint-Loup arrivare a un ricevimento dove già mi trovavo, aveva un modo di rialzare la testa così setosamente e fieramente di razza sotto il pennacchio d’oro dei capelli un po’ spiumati, movimenti del collo talmente più sciolti, più fieri e più civettuoli di quelli propri agli umani, che davanti alla curiosità e all’ammirazione per metà mondana, per metà zoologica ch’egli ispirava, c’era da chiedersi se ci si trovasse nel faubourg Saint-Germain o al Jardin des Plantes, e se si stesse guardando un gran signore attraversare un salotto o un uccello passeggiare nella sua gabbia. D’altra parte, tutto quel ritorno all’eleganza volatile dei Guermantes dal becco aguzzo, dagli occhi affilati, era utilizzato adesso dal suo nuovo vizio, che se ne serviva per darsi un contegno. Più se ne serviva, più sembrava ciò che Balzac chiama “una zia”. Bastava un po’ d’immaginazione perché il suo modo di cinguettare si prestasse a questa interpretazione non meno delle sue piume. Si metteva a dire frasi che credeva grand siècle, imitando in questo i modi dei Guermantes. Ma un indefinibile nonnulla faceva sì che diventassero, al tempo stesso, i modi del signor di Charlus. «Ti lascio un istante», mi disse quella sera, mentre Madame de Marsantes era poco lontana da noi. «Vado a fare un filo di corte a mia madre.»
L’amore di cui mi parlava di continuo non era soltanto, del resto, quello per Charlie, sebbene fosse l’unico che contava per lui. Qualunque sia il genere d’amori che un uomo coltiva, ci si sbaglia sempre sul numero delle sue relazioni, perché si interpretano erroneamente come relazioni delle amicizie, il che costituisce un errore per addizione, ma anche perché si crede che una relazione conosciuta ne escluda un’altra, il che costituisce un errore d’altro genere. Due persone possono dire: «Sì, l’amante di X..., la conosco», pronunciare due nomi diversi e non sbagliarsi né l’una né l’altra. È raro che una donna che amiamo soddisfi tutti i nostri bisogni, e la inganniamo con una che non amiamo. Quanto al genere d’amori che Saint-Loup aveva ereditato da Charlus, un marito che vi sia incline fa di solito la felicità di sua moglie. È una regola generale rispetto alla quale i Guermantes trovavano il modo di fare eccezione, perché quelli fra loro che avevano questo gusto volevano far credere d’avere, al contrario, quello delle donne. Si mettevano pubblicamente con questa o con quella, e facevano disperare le loro mogli. I Courvoisier si comportavano con più giudizio. Il giovane visconte di Courvoisier si credeva l’unico sulla terra fin dall’origine del mondo ad essere tentato da qualcuno del suo sesso. Pensando che quell’inclinazione gli venisse dal diavolo, lottò per contrastarla. Sposò una donna incantevole, le fece fare dei bambini. Poi un cugino gli insegnò che era un’inclinazione piuttosto diffusa, e spinse la sua bontà fino a condurlo in luoghi dove poteva soddisfarla.
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