Io, sdraiato sul pavimento, ascoltavo quei pianti, quei lamenti, quel vaneggiare di cervelli offuscati dal dolore. E mi sembrava, in qualche angolo del passato nebuloso, di udire il coro di quegli stessi lamenti salire fino a me, che allora non ero nel numero dei sofferenti ma ero il padrone orgoglioso e senza pietà.
Più tardi, identificai questo vago ricordo col tempo in cui, capitano di una galera dell’antica Roma, navigavo verso Alessandria e Gerusalemme. Il coro era dei galeotti che remavano e gemevano, sotto di me, avvinti ai lunghi remi.
Ma vi racconterò tutto questo, e a lungo. Per il momento…
4. “PARLA, STANDING!”
Nelle celle, le urla continuavano senza tregua, e durante quelle infinite ore d’attesa il mio spirito era fissato unicamente al pensiero che stava per venire il mio turno, che anch’io sarei stato trascinato fuori, che avrei subìto le torture di quella nuova inquisizione e che mi avrebbero ributtato poi sul pavimento della mia cella, di questa cella odiosa dalla porta di ferro e dalle mura di pietra. E giunse il mio turno. Fui afferrato e portato brutalmente fuori, fra percosse e bestemmie. Mi trovai, non so come, di fronte al capitano Jamie e al direttore Atherton, circondati da una mezza dozzina di aguzzini pagati dai contribuenti che aspettavano solo un segnale per mettermi addosso le loro zampe.
Il loro aiuto fu superfluo.
- Siediti, Standing! - mi ordinò il direttore Atherton, indicandomi una seggiola enorme.
Ero là, in piedi, pesto, con tutte le membra indolenzite, morente di fame e di sete, già sfinito dai cinque giorni precedenti di segregazione e da ottanta ore di camicia di forza. Tremavo.
Battevo i denti al pensiero di ciò che stava per succedere, a me, ignobile rottame d’uomo, vecchio professore d’agronomia in un tranquillo centro universitario. Esitavo a sedermi.
Il direttore, per statura e forza, era un vero colosso. Poiché tardavo a obbedire, si slanciò su di me, afferrandomi per le ascelle. Poi, come se fossi stato un bambino, mi sollevò da terra e mi incastrò nel seggiolone.
- E adesso, - riprese, mentre io boccheggiavo, - dimmi tutto, Standing! Sputa fuori! E’ il modo migliore per migliorare la tua situazione.
- Ma… ma io non so niente di quel che è successo… - balbettai.
Un attimo dopo, il direttore Atherton balzò nuovamente su di me, mi alzò per aria schiacciandomi un’altra volta sulla seggiola.
Finiscila con la commedia, Standing! continuò. - E’ inutile!
Parla! Dov’è la dinamite?
Protestai che non sapevo un accidenti della dinamite.
Fui sollevato una terza volta ricadendo come frantumato. Questo genere di tortura era completamente nuovo per me. Paragonato agli altri che avevo già subito, si può dire che fosse nettamente peggiore.
Il seggiolone, sotto gli urti ripetuti del mio corpo, cominciò a rompersi. Ne portarono un altro ma anche questo fu ben presto mal ridotto. Poi un terzo. E sempre quella dannata domanda sulla dinamite.
Quando il direttore Atherton fu esausto, il capitano Jamie lo sostituì. E quando Jamie, dopo un bel po’, fu stanco a sua volta, l’esercizio lo continuò il guardiano Monohan. - “Dov’è la dinamite?” - E su, per aria; poi giù, sulla seggiola! - “Parla:
dov’è la dinamite… La dinamite… La dinamite…” In tutta coscienza, avrei barattato volentieri una buona parte della mia anima immortale per qualche libbra di questo fantomatico esplosivo, che avrei potuto dare in pasto ai miei torturatori.
Quante seggiole furono spezzate? Non lo so. Arrivò infine un momento in cui ero in pieno delirio. Addormentato o sveglio? Chi lo sa. Persi i sensi dalla debolezza, più volte. Per finire, venni ributtato nella mia cella. Quando rinvenni, mi vidi accanto un agente provocatore. Era un condannato a tempo, un ometto dalla faccia livida, un eteromane pronto a tutto per procurarsi la droga preferita.
Non appena lo riconobbi, mi trascinai verso il finestrino della mia cella, e urlai nel corridoio:
- State in guardia, amici! C’è una spia fra noi! E’ Ignazio Irvine. Attenti a quello che dite!
L’inferno di imprecazioni che scoppiò avrebbe fatto tremare i polsi di un uomo ben più coraggioso di questo Ignazio Irvine. Era disgustoso nel suo terrore, mentre tuonavano le voci dei quaranta reclusi, che gli promettevano per l’avvenire le più orrende vendette.
Se ci fosse stato qualche segreto da mantenere, la presenza di una spia sarebbe stata sufficiente a chiudere tutte le bocche. Ma non c’era nessun segreto, e le conversazioni ripresero, da un finestrino all’altro.
L’indomani e i giorni seguenti, gli interrogatori ripresero, sempre con il solito sistema. Quando gli uomini non riuscivano più a camminare, venivano trasportati.
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