Corse persino la notizia che il direttore Atherton e il capitano Jamie dovessero darsi il cambio ogni due ore, tanto erano stanchi.

Nel nostro reparto, la follia cresceva di giorno in giorno, d’ora in ora.

Capite bene quello che stava accadendo? La verità, che tutti noi dicevamo, era la nostra condanna. Di fronte a questi quaranta incorreggibili, che ripetevano continuamente le stesse cose, il direttore Atherton e il capitano Jamie pensavano, convinti, che mentivamo tutti d’accordo, come un pappagallo ripete una lezione imparata.

La situazione delle autorità era senza via d’uscita come la nostra. Come venni a sapere in seguito, il Consiglio dei Direttori della prigione era stato convocato telegraficamente, e così due compagnie di milizia, per fronteggiare ogni evento.

Nelle nostre celle, non avevamo né materassi né coperte. Poiché chiedevamo continuamente un po’ d’acqua, i guardiani si divertivano ad azionare le pompe antincendio. Dai finestrini, i getti d’acqua si abbattevano su di noi, colpendo con forza i nostri corpi doloranti, e facendoci saltare come cavallette impazzite fra le nostre quattro mura.

Dei quaranta uomini che subirono questi trattamenti, non uno uscì incolume. Luigi Polazzo, come ho già detto, fu il primo a impazzire e non recuperò mai più la ragione. Long Bill Hodge la perse lentamente, e raggiunse Luigi nel reparto dei pazzi. Altri ancora lo seguirono. Altri, la cui salute era stata profondamente minata, rimasero vittime della tubercolosi. In tutto, un buon quarto dei quaranta ci lasciò la pelle.

Quanto a me, venni portato due volte davanti al Gran Consiglio dei Direttori. Potevo scegliere fra due alternative. Se avessi svelato dov’era la dinamite, avrei avuto una punizione puramente nominale di trenta giorni di cella, e poi sarei stato nominato sorvegliante della Biblioteca. Se invece avessi insistito a non voler rivelare dov’era la famosa dinamite, allora sarei stato inviato in segregazione cellulare fino al termine della mia condanna. Ossia in eterno, dato che ero condannato a vita.

Incredibile! Nessun codice ha mai stabilito una legge così. La California è un paese civile, o almeno si vanta d’esserlo. La segregazione cellulare a vita è una pena mostruosa, fuori da ogni legge morale o scritta. Eppure io sono il terzo uomo in California, che ha udito pronunciare contro di sé una simile condanna. Gli altri due sono Giacomo Oppenheimer ed Edoardo Morrell. Fra non molto vi farò fare la loro conoscenza, perché ho passato in loro compagnia ben cinque anni, nella mia cella oscura…

Il Gran Consiglio mi concesse dunque la scelta: un’occupazione gradevole se restituivo una dinamite che non esisteva; la segregazione cellulare a vita, se rifiutavo.

Mi furono affibbiate ventiquattr’ore di camicia di forza, affinché potessi riflettere con calma. Poi, fui ricondotto davanti a quei signori. Che potevo fare? Ripetei, per la centesima volta, che non potevo consegnare una cosa che non esisteva. Ribatterono che ero un bugiardo. Mi dissero inoltre che ero un flagello vivente, un degenerato, il peggior criminale del secolo, e tanti altri complimenti del genere.

In conclusione, mantennero la parola, e invece che nelle celle comuni, mi trasferirono nel reparto di segregazione cellulare. Mi sbatterono nella cella numero 1. Il numero 5 era occupato da Edoardo Morrell. Il numero 15 da Giacomo Oppenheimer, che c’era già da dieci anni; Morrell da un anno soltanto. Doveva scontare una pena di cinquant’anni, mentre Oppenheimer era a vita, come me.

A prima vista, tutto faceva pensare che avremmo dovuto soggiornare in quegli antri per lungo tempo. Eppure, sono trascorsi soltanto sei anni, e nessuno di noi ci si trova più. Oppenheimer è stato impiccato; Morrell, per buona condotta, è diventato uomo di fiducia a San Quintino, e poi è stato graziato. Io sono qui, a Folsom, in attesa che il giorno stabilito dal giudice Morgan sia il mio ultimo giorno.

Quando, dopo sei anni di segregazione, uscii dalla prigione di San Quintino per essere trasferito qui ed esservi giudicato, come poi vi dirò, rividi Skysail.