Lorenzo stesso fece diversi viaggi di mare, espose la propria persona a diversi perigli, non si perdonò né a spese, né a fatiche per iscoprire lo smarrito Girolamo. Ma anche questi due anni passarono infruttuosamente come i precedenti.”— E la Contessa Antonia — dimandò il Principe. — Non ci dite voi nulla della sua situazione? Avrà ella ceduto con piena indifferenza al suo destino? Io non posso crederlo.— La situazione di Antonia era il piú terribile contrasto tra il dovere e la passione, tra la ripugnanza e l’ammirazione. La disinteressata generosità dell’amor fraterno la commoveva; ella sentivasi forzata a rispettar quell’uomo che ella non avea mai potuto amare; il di lei cuore, lacerato da contrari affetti, era nella desolazione. Ma il di lei contraggenio al Cavaliere sembrava crescere in egual grado de’ suoi diritti alla di lei stima. Con vivo rincrescimento osservava egli la tacita passione che struggeva la di lei giovinezza. Una tenera compassione s’insinuò insensibilmente in luogo dell’indifferenza colla quale l’avea egli sin allora riguardata; ma questo ingannevole affetto lo sedusse, ed una furiosa passione incominciò a rendergli piú difficile la pratica d’una virtú che sino allora avea in lui trionfato d’ogni tentazione opposta. Ma anche ad onta del proprio cuore continuava ad ascoltare i suggerimenti del suo nobil animo: egli solo era il protettore della vittima infelice contro il dispotismo della famiglia; ma tutti i suoi sforzi furono vani; ogni vittoria ch’egli riportava sopra la sua passione, lo dimostrava sempre piú degno di lei, e la generosità con cui la ricusava serviva soltanto a rendere inescusabile ogni di lei opposizione.“Tale si era lo stato delle cose, allorquando il Cavaliere m’indusse a fargli una visita alla sua casa di campagna. La calda raccomandazione del mio mecenate procurommi colà un’accoglienza superiore a quanto avrei potuto desiderare. Io non deggio qui omettere di osservare a tale proposito che, mediante alcune rimarcabili operazioni, erami riuscito di render tra quelle logge massoniche famoso il mio nome, lo che per avventura contribuito avea ad aumentare la confidenza in me del vecchio Marchese, ed a render maggiore la sua aspettativa a mio riguardo. Mi dispensino le signorie loro di raccontare sino a quali estremi io giungessi seco lui, e di quali mezzi io mi servissi a tale uopo; dalle confessioni che ho loro di già fatte, potranno di leggieri argomentare tutto il rimanente. Siccome io mi metteva a profitto tutti i libri mistici che ritrovavansi nella copiosissima libreria del Marchese, mi riuscí ben tosto di parlar seco lui nella sua propria lingua e di mettere all’unisono il mio sistema del mondo invisibile colle sue proprie opinioni. In corto dire, egli credea tutto ciò ch’io volea, ed avrebbe con egual franchezza giurato sugli accoppiamenti dei filosofi colle salamandre e co’ silfi, come sopra un articolo del canone. Siccome egli era d’altronde assai religioso, ed avea ridotto in questa scuola il suo talento di credulità ad un alto grado di perfezione, perciò trovavano le mie cantafavole presso di lui tanto piú grato accoglimento, ed alfine io lo avea talmente imbrogliato ed avviluppato nella misticità, che nulla avea piú credito presso di lui, se non era soprannaturale; in una parola, io era divenuto l’apostolo venerato della casa. Il solito argomento delle mie prelezioni era l’esaltazione dell’umana natura ed il commercio cogli esseri superiori, ed il mio mallevadore era l’infallibil Conte de Gabalis. La giovine Contessina, che, dopo la perdita del suo amato bene, vivea di già piú nel mondo degli spiriti che nel mondo fisico, e dagli entusiastici voli della sua fantasia era tratta per l’interesse della propria passione ad oggetti di simile specie, accolse i miei cenni, a lei gettati di passaggio, con tremante avidità, anzi persino i domestici della casa cercavano d’aver qualche cosa da fare nella camera quando io parlava per cogliere qua e là qualcuna delle mie parole, e questi squarci se gli andavano poi ripetendo l’uno all’altro a modo loro.“Io avea passato circa due mesi a questo modo in quella nobile magione, allorquando una mattina il Cavaliere entrò nella mia camera. Una profonda afflizione era dipinta sul di lui volto: tutte le sue fattezze erano stravolte: egli si gettò sopra una sedia con tutti i sintomi della disperazione. “Capitano” mi diss’egli “per me ella è finita. Io deggio andarmene. Io qui non posso piú resistere.” “Che c’è, Cavaliere? Che ha ella mai?” “Ah! questa terribil passione!” qui si alzò con impeto dalla sedia, e si gettò fra le mie braccia. “Io l’ho combattuta come un uomo. Ora io non posso piú.” “Ma da chi dipende dunque, mio diletto amico, se non da lei? Non sta forse il tutto in di lei potere? Padre… famiglia…” “Padre!… famiglia! Che importa a me questo? Voglio io avere una mano forzata, oppure una libera inclinazione? Non ho io un rivale? Ah! e quale? Un rivale che forse è fra i morti? Ah! lasciatemi, lasciatemi! S’io andar dovessi anche agli ultimi confini del mondo, io deggio ritrovar mio fratello.” “Come dopo tanti infruttuosi tentativi può ella ancora nudrire speranza?” “Speranza! Nel mio cuore ella è già da lungo tempo estinta. Ma lo è anche in quello di lei? Che importa se io speri o no? Sono io forse felice sintanto che una scintilla di questa speranza arde tuttora nel cuor d’Antonia?… Due parole, amico, terminar potrebbero il mio martirio. Ma invano! Il mio destino rimarrà infelice sinché l’eternità non rompa il suo lungo silenzio, e le tombe non facciano per me testimonianza.” “È ella dunque solo tale certezza che può renderla felice?” “Felice! Ah! io dubito se mai lo sarò ancora! Ma l’incertezza è la piú orribile di tutte le pene.” Dopo alcuni momenti di silenzio egli si calmò, e proseguí poi con tuono appassionato. “Deh! s’ei vedesse i miei tormenti! Può ella renderlo felice questa fedeltà che forma la miseria del suo germano? Dovrà un vivente languire per cagione d’un morto che non può piú nulla godere? Ah! s’ei sapesse il mio tormento…” qui egli proruppe in dirottissimo pianto, e mi compresse il volto sul petto “forse… sí, forse la condurrebbe egli stesso fra le mie braccia.” “Ma questo desiderio è egli forse ineseguibile?” “Amico! che dite voi mai?” E guardommi con aria spaventata. “De’ motivi di ben minore importanza” continuai io “hanno interessato i trapassati nel destino de’ viventi. Dovrebbe dunque tutta la terrena felicità d’un uomo… d’un fratello…” “Tutta la terrena felicità! Ah! sí pur troppo è cosí! Oh come avete colto nel vero! Tutta la mia felicità.” “E la pace d’una desolata famiglia non esser motivo legittimo d’invocare il soccorso delle potenze invisibili? Certamente! Se mai affare mondano può giustificar l’assunto di turbare il riposo de’ beati… di far uso d’una forza…” “Per amor del cielo, amico!” m’interruppe egli “non piú di questo, non piú. Altre volte, il confesso, ho nudrito un tal pensiero, parmi anzi d’avervene fatto motto; ma già da lungo tempo io l’ho scacciato come empio ed abbominevole.”“Le signorie loro scorgono di già” continuò il Siciliano “dove ci condusse questo colloquio. Io mi sforzai di dissipare le dubbiezze del Cavaliere, e finalmente vi riuscii. Fu conchiuso di evocare lo spirito del defunto, al che io non dimandai che lo spazio di due settimane sotto il pretesto di prepararmivi degnamente.