Ma nulla sembrava far impressione sull’animo del Principe: egli parlava poco, e rispondeva astratto: i suoi occhi erano inquieti, e sempre rivolti verso la parte da dove Biondello venir dovea; una grande emozione sembrava regnare nell’intimo del suo animo. Civitella dimandò come gli fosse piaciuta la chiesa; egli non sapeva dirne nulla. Si parlò di alcune celebri pitture che la rendevano degna d’osservazione; egli non ne avea osservata alcuna. Noi ci accorgemmo che le nostre dimande lo importunavano, e cessammo di parlare. Le ore passavano l’una dopo l’altra, e Biondello ancora non compariva. L’impazienza del Principe andò all’ultimo estremo. Egli si levò da tavola per tempo, ed andò tutto solo a passeggiare su e giú per un viale remoto con rapidi passi. Niuno capiva che mai gli fosse accaduto. Io non mi arrischiava a domandargli la cagione di un sí strano cambiamento: già da lungo tempo io non mi prendo piú seco le confidenze del passato. Con tanto maggiore impazienza io attendeva il ritorno di Biondello per avere la spiegazione di tale arcano.
Erano già passate le dieci allorch’egli ritornò. Le notizie ch’egli recò al Principe non contribuirono punto a renderlo piú conversevole. Egli rientrò di cattivo umore nella società, fu preparata la gondola, e subito dopo fummo ricondotti a casa.
In tutta la sera io non potei ritrovare un’occasione di parlare a Biondello, e dovetti quindi andare a letto colla mia curiosità non soddisfatta. Il Principe ci avea congedati per tempo, ma mille pensieri che mi si aggiravano pel capo, mi tenevano svegliato. Per lungo tempo io lo sentii sopra la mia camera da riposo passeggiare avanti e indietro; finalmente io m’abbandonai al sonno. Assai tardi dopo la mezzanotte mi risvegliò una voce, una mano mi passò sul volto, apro gli occhi, e vedo il Principe che con un lume alla mano stava dinanzi al mio letto. Ei mi disse che non poteva riposare, e mi pregò d’aiutarlo ad abbreviar la notte. Io volea tosto vestirmi; egli mi comandò di restar dove io era, e si assise a canto del mio letto.
— Mi è accaduto qualche cosa oggi — prese egli a dirmi — la cui impressione non potrà mai cancellarsi dal mio animo. Io mi staccai da voi, come sapete, per entrare nella chiesa, della quale Civitella mi avea reso curioso, e che già da lontano avea invogliati i miei sguardi. Non essendo né lui né voi alla mia portata feci solo que’ pochi passi, e lasciai Biondello ad aspettarmi all’ingresso. La chiesa era affatto vota: quella fredda oscurità mi fece provare non so quale ribrezzo, allorché entrandovi passai dalla calda e viva luce del giorno in essa. Io mi trovai solitario sotto quella vasta cupola dove regnava un alto sepolcrale silenzio. Io mi appostai nel mezzo, e m’abbandonai a tutta la forza di questa impressione: a poco a poco si rendevano piú visibili le vaste dimensioni e rapporti di quel maestoso edifizio a’ miei occhi: io mi perdeva in seria e dilettosa contemplazione. La campana dell’Ave rimbombava sopra di me, il suo squillo echeggiava dolcemente in quel volto, come nel mio animo. Alcuni altari avean da lungi eccitata la mia attenzione; m’avvicinai per considerarli; insensibilmente io avea percorso tutto quel fianco della chiesa fino all’estremità opposta. Quivi si salgono alcuni gradini, intorno ad un pilastro, che mettono ad una cappella laterale, dove sono altri piú piccioli altari e statue di santi entro le loro nicchie. Mentre io entro nella cappella a destra, sento a me vicino un dolce sussurro, come d’alcuno che parli sotto voce, mi volgo verso quel suono, e… due passi da me lungi mi si presenta agli occhi la figura di una giovane donna… No! Io non posso descriverla questa figura! Lo sbigottimento fu la mia prima sensazione che ben tosto diede luogo alla piú amabile sorpresa.
— E questa figura, Altezza, sa ella poi di certo che fosse qualche cosa vivente, qualche cosa di reale, non già una semplice pittura, né un’idea della di lei fantasia?
— Udite il resto… ella era una Dama… No! Io non avea mai sino a quel punto veduta una sua pari! Tutto era fosco all’intorno; per una sola finestra entrava la luce dello spirante giorno nella cappella, il sole non era piú in altro luogo che sopra quella figura. Con inesprimibile grazia era ella, mezzo genuflessa, mezzo giacente, in dolce abbandono davanti ad un altare… il piú ardito, il piú amabile, il piú profilato contorno unico ed inimitabile, il piú bel lineamento di natura. Nero era il suo abito, che attillato, d’intorno al piú leggiadro corpo, si stringeva sulle tornite sue elegantissime braccia ed in ondosi panneggiamenti come alla foggia spagnuola le si allargava al basso; le sue bionde e lunghe chiome, annodate in due larghe trecce che pel loro peso ricadenti e vaghe le uscivano dal velo, le passavano in grato disordine lungo gli omeri; una mano era stesa verso il Crocefisso e dolcemente inclinata ella si posava sull’altra. Ma dove troverò io parole atte a descrivervi il celeste suo volto, dove un’alma angelica, come sovra il suo trono, diffondeva tutta la pienezza delle sue attrattive! Il sol cadente vi scherzava sopra, e gli aurei suoi raggi sembravano cingerlo quasi d’una corona di gloria. Potete voi risovvenirvi della Madonna del nostro Fiorentino? Ella era tutta in lei, tutta sino alle sue qualità irregolari ch’io trovava in quell’immagine cosí attraenti, cosí irresistibili.
La storia della Madonna di cui qui parla il Principe è come siegue: poco dopo la di lei partenza da Venezia egli fece qui conoscenza d’un pittore fiorentino ch’era stato chiamato a Venezia per dipingere il quadro d’un altare per una chiesa di cui ora non mi ricordo il nome.
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