Più tardi, tornato in Svezia, a Lund, porta a termine la lettura di Arcana Cœlestia, l’opera centrale di Swedenborg. È la salvezza. Swedenborg descrive con estrema nitidezza e con la stessa minuzia che si ritrova nei suoi libri di anatomia e di fisiologia le visioni fantastiche dell’Aldilà. Swedenborg, con un ricamo intessuto in un disegno geometrico, come scrive Mario Gabrieli, intende conciliare il dualismo cartesiano tra materia e spirito risolvendolo platonicamente nell’unità di Dio. Ma non è solo questo che Strindberg rinviene nel grande libro del suo connazionale: Swedenborg descrive e spiega la natura dei fenomeni che hanno colpito Strindberg: «Tutto ciò che mi è capitato, lo ritrovo in Swedenborg: le angosce (angina pectoris), l’oppressione, le palpitazioni, la stretta che chiamavo elettrica, c’è tutto». Il profeta ha subito le sue stesse torture notturne. I dèmoni che lo hanno perseguitato erano «spiriti correttori»: la sofferenza fa bene, è un debito pagato, l’espiazione di una colpa commessa prima dell’arrivo sulla terra. L’Inferno è sulla terra. L’Inferno è dentro di noi. L’Inferno sono gli altri [6]. La terra è una colonia penale dove dobbiamo subire la pena dei crimini commessi in una esistenza anteriore.

Le pene sofferte da Strindberg e da lui descritte nell’Inferno con tanto pathos e con travolgente ritmo narrativo non erano dunque che una prova. Tutto ciò che vi era di autentico nella sua sofferenza, e le risultanze di un reale complotto nei suoi confronti, cedono il passo di fronte alla «blague», allo scherzo cattivo che la divinità ha voluto fargli permetterlo alla prova: il mistero medievale che precede Inferno si spiega come una parodia della Creazione, ed è un’altra chiave interpretativa del libro. Strindberg, che non è scrittore mistico e che, come sosteneva il collega polacco, non era incline alla metafisica, non è, non può essere un vero convertito. Dopo essersi servito di Swedenborg, se ne staccherà e tornerà al suo scetticismo: è lo Strindberg che «osò la domanda ridicola e irridente: - Dio è teologo? [7]». Ed anche i tre tentativi di suicidio descritti in Inferno vanno presi con beneficio d’inventario. Il primo, in Inferno I, sembra più un espediente letterario che un episodio realmente avvenuto. All’inizio di Sylva Sylvarum, Strindberg mostra di volersi suicidare respirando i vapori di azoto e di carbonio usati per i suoi esperimenti di chimica. Ma quando il cianogeno comincia a svilupparsi e si sprigiona l’odore di mandorle amare del veleno, a Strindberg sembra di vedere un mandorlo in fiore nel viale di un giardino. E sente addirittura la vocina d’una vecchia che gli grida: «Andiamo, ragazzo, non ci credere!». Gli altri due tentativi descritti in Inferno I e in Inferno II sono ancora più improbabili: Strindberg legge un delizioso opuscolo, La gioia di morire, che gli suscita il desiderio di abbandonare questo mondo, fa per uccidersi col cianuro ma il suo tentativo è sempre turbato da qualche incidente, il cameriere che entra, una vespa che irrompe dalla finestra, secondo una ben orchestrata combinazione di ostacoli che ricorda la reiterazione che fa scattare la comicità. Nel primo capitolo di Inferno II (Leggende), torna il tema del suicidio, ma non è più che la tentazione di un attimo, subito superata.

Se la vita è una buffonata, anche la morte lo è, sembra suggerire Strindberg, il quale deve indubbiamente a Kirkegaard l’idea che il demoniaco richieda sempre, incessantemente, il comico. D’altra parte, già Dante lo aveva mostrato, con i diavoli comicamente osceni del suo Inferno. Ma cosa oppone l’eroe Strindberg alle potenze occulte che lo sconvolgono e lo perseguitano? «Io posso tremare davanti ad un conto d’albergo non pagato, ma non mi coprirei il viso per salire sul Sinai e sfidare l’Eterno.» Strindberg è un uomo contro, uno scrittore in lotta contro i tranelli, le ipocrisie della vita sociale: è un anti-eroe modernamente inteso. Il suo titanismo cede davanti ad un rumore sospetto, alla vista di una serie di finestrine di latrine. La sua forza ciclopica abortisce per mancanza di volontà eroica. Strindberg non è tragico, il suo potenziale è grottesco, non è Prometeo contro Zeus, la sua ribellione faustiana non ha nulla di metafisico ma è terribilmente legata a quella di un uomo dei nostri giorni, un uomo privo del senso del sublime, di pentimenti veri e di autentiche consapevolezze spirituali. Si sente spesso perseguitato, ma lo è, a tratti, in modo così puerile che fa pensare allo spettatore del terzo ordine di palchi di Kafka, che interpretava come un’offesa personale le occhiate della sua adorata, e sconosciuta prima attrice, al giovane brillante.

Nel dicembre del 1898, ormai lontano dalla crisi di Inferno, Strindberg scrive al suo amico François Jollivet-Castelot: «I miei pensieri sono altrove, lontani dalla chimica e dall’occultismo. Il fatto è che sono tornato seriamente all’arte del teatro, che è il mio mestiere, e non devo più occuparmi di magia, vietata dalla religione». Il vecchio mistificatore, con una piroetta degna di un «fool» elisabettiano, è risalito in palcoscenico. Non gli è stato dato di andare più in alto, ma è proprio questo che ce lo fa sentire ancora vicino e che lo rende così autenticamente attuale.

 

Mario Moretti

Nota bio-bibliografica

Cronologia della vita e delle opere

1849.