Questa protuberanza che si levava al disopra del livello naturale della terra, sorgeva nel punto più alto del più isolato altopiano della brughiera. Benchè, a guardarlo dalla valle, sembrasse poco più d’una verruca sulla fronte d’un gigante, le sue dimensioni erano notevoli: appariva il polo e l’asse di quel mondo d’erica e di ginestra.
Guardando, mentre si riposava, la montagnola, l’uomo notò come sulla sua cima, ch’era stata sinora il punto più alto dell’intero paesaggio, fosse comparso qualcosa di più alto ancora. Emergeva dal monticello emisferico come il chiodo d’un elmetto. Uno straniero dotato di fantasia avrebbe potuto credere che si trattasse d’uno degli antichi celti costruttori del tumulo, a tal punto era assente dalla scena ogni traccia di modernità: forse l’ultimo di quegli uomini antichi, che ancora indugiava meditando per un attimo prima di affondare nella notte eterna col resto della sua razza.
La figura rimaneva là, immobile come il colle su cui posava. Sulla pianura sorgeva la collina, sulla collina la montagnola e sulla montagnola la figura. Al disopra della figura nulla che si potesse disegnare su una carta che non fosse quella del globo celeste.
La figura dava alla massa scura dei colli un tocco definitivo così perfetto, delicato e necessario, da sembrare la loro unica evidente giustificazione. Senza di essa, sarebbe stata una cupola senza il lucernario; la sua presenza soddisfaceva invece alle esigenze architettoniche della massa. Il paesaggio era stranamente omogeneo; valle, altopiano, montagnola e figura costituivano un’unità. A guardar l’uno o l’altro pezzo dell’insieme si aveva l’impressione di non osservare una cosa completa, ma una semplice frazione di essa.
A tal punto la figura appariva parte organica dell’intera immota struttura che nel vederla muovere si sarebbe stati colpiti come da un fenomeno. Essendo l’immobilità la principale caratteristica di quel tutto di cui la persona faceva parte, l’interrompersi dell’immobilità in qualsiasi punto avrebbe creato un senso di disordine.
Eppure fu proprio quel che accadde. Si vide la figura perdere la sua immobilità, fare due o tre passi, voltarsi. Come se qualcosa l’avesse spaventata, si lasciò scivolare sul fianco destro della montagnola, come una goccia d’acqua che scorra sull’involucro d’una gemma, poi scomparve. Ma bastarono quei pochi movimenti per mostrare in modo più chiaro i tratti caratteristici della figura, che si rivelò quella d’una donna.
Ben presto però fu chiara la ragione del suo improvviso spostamento. Un’altra figura, carica d’un fardello, emerse nel cielo a sinistra, salì il monticello e depose il carico sulla cima. Seguì una seconda figura, poi una terza, una quarta, una quinta, finchè tutta la montagnola fu coperta di figure curve sotto un carico.
L’unica cosa comprensibile in questa pantomima d’ombre sullo sfondo del cielo era che la donna non aveva nessun rapporto con le forme che l’avevano sostituita, si sforzava anzi di evitarle ed era venuta in quel luogo per uno scopo diverso. La fantasia dell’osservatore preferiva indugiare sulla solitaria figura scomparsa, trovandola più interessante, più importante, e probabilmente più ricca d’una storia che valeva la pena di conoscere, che non sui nuovi venuti, ch’era inconsciamente tratto a considerare come intrusi. Tuttavia c’erano, e sembravano decisi a rimanere; mentre nulla faceva prevedere che la persona solitaria, prima regina di quel luogo deserto, dovesse ricomparire.
USANZE PAESANE
L’osservatore che si fosse trovato nelle immediate vicinanze si sarebbe reso conto che quelle persone erano ragazzi e uomini, abitanti dei villaggi vicini. Ciascuno di essi, salendo la montagnola, portava un greve carico di fascine di ginestra, legate - due davanti e due dietro - ad un palo aguzzato a questo scopo alle due estremità e bilanciato sulla spalla. Venivano da una zona, a un quarto di miglio più all’interno, di cui la ginestra era quasi l’unico, esclusivo prodotto.
Questo sistema di portare le fascine, che li coprivan così quasi completamente, li rendeva, finchè non se ne fossero liberati, simili a cespugli in movimento. Erano arrivati camminando in fila indiana, come un gregge di pecore in viaggio: prima i più forti, poi i deboli e i giovani.
Le fascine vennero ammucchiate e sulla cima della montagnola, nota per molte miglia attorno col nome di Rainbarrow, si levò una piramide di circa dieci metri di circonferenza. Alcuni si diedero poi da fare coi fiammiferi e a scegliere i rami più secchi, altri a sciogliere gli sterpi che tenevano insieme le fascine. Altri ancora, mentre si svolgevano queste operazioni, levavan gli occhi a guardare l’ampio paesaggio che si poteva dominare dall’altura, ora quasi completamente sommerso dall’ombra. Nelle valli della brughiera nulla si vedeva, a qualsiasi ora del giorno, all’infuori del suo volto selvaggio; ma dall’alto della montagnola si scorgeva un orizzonte più ampio che comprendeva un tratto molto lontano, in parte fuori della brughiera stessa. I particolari non erano visibili, ma si aveva l’impressione d’una distesa vaga e remota.
Mentre uomini e ragazzi stavano lavorando a costruire la catasta, qualcosa avvenne nella massa d’ombra del lontano paesaggio. Soli rossi e barbagli di fuoco s’accesero, uno dopo l’altro, punteggiando la campagna circostante. Erano i falò che gli abitanti di altri distretti e altri villaggi accendevano per commemorare lo stesso fatto. Alcuni, lontani, in un’atmosfera nebbiosa, irradiavano a ventaglio fasci di pallidi raggi color paglia. Altri, grandi e vicini, laceravano la tenebra col loro ardore scarlatto, simili a ferite in una pelle nera. Altri sembravano Menadi dal volto violaceo e dalle chiome svolazzanti. I fuochi tingevano il grembo silenzioso delle nubi sovrastanti, illuminandone le effimere caverne, che sembravano trasformarsi in immense caldaie ardenti.
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