Si potevano contare una trentina di falò in tutta quella zona; e, come si può leggere l’ora su un quadrante anche quando le cifre sono invisibili, così gli uomini riconoscevano la località di ciascun falò dall’angolo e dalla direzione, anche se non si vedeva altro.
La prima fiamma del falò del Rainbarrow che si levò alta nel cielo richiamò l’attenzione di tutti quelli che avevano fissato gli occhi sui fuochi lontani. L’allegro chiarore illuminò a sprazzi la superficie interna del cerchio umano - a cui altri viandanti s’erano ora aggiunti, maschi e femmine - rivestendola come d’un manto d’oro e gettando sulla scura erba attorno una luce viva, che si veniva attenuando e spegnendo ai piedi della montagnola. In questa luce, la montagnola o tumulo appariva come il segmento d’un globo, perfetta come il giorno in cui era stata costruita, con accanto il fossatello, da cui era stata scavata la terra. Nessun aratro aveva mai smosso un granello di quel terreno indomabile. Sterile per il contadino, la brughiera era feconda per lo storico: nulla era stato distrutto perché nulla era stato costruito.
Si sarebbe detto che gli uomini intenti ad alimentare il falò si trovassero in un radioso piano superiore del mondo, staccato e indipendente dalle zone d’ombra sottostanti. La brughiera in basso appariva loro come un vasto abisso, non come continuazione della terra su cui posavano i piedi; i loro occhi, abbagliati dalla fiamma, nulla potevano discernere nelle profondità che non n’erano illuminate; anche se di quando in quando una luce più vigorosa saettava lampi di luce lungo il pendio a esplorare qualche lontano cespuglio, stagno o tratto di sabbia bianca, rivestendoli per un attimo dello stesso colore finchè tutto non scompariva di nuovo nella tenebra. Il nero paesaggio assomigliava allora al Limbo come doveva averlo visto dal ciglio della montagna, nella sua visione, il genio fiorentino, e gli articolati mormorii del vento nelle piccole valli facevano pensare ai lamenti e alle suppliche degli «spiriti magni» colà sospesi.
Era come se questi uomini e questi ragazzi si fossero tuffati di colpo nel passato, evocandone un’ora e un’attività un tempo familiari al luogo. Le ceneri dell’originaria pira britannica accesa su quella vetta giacevano intatte ancora e inviolate nel tumulo sotto i loro piedi. Le fiamme dei roghi funebri là accesi un tempo avevano illuminato la pianura come quelle del falò di oggi. A questi eran seguiti nello stesso luogo i fuochi accesi in onore del dio Thor e del dio Odino. Sappiamo benissimo come i falò, simili a quello intorno a cui si raccoglievano oggi allegramente i paesani, siano eredità di una confusione di riti druidici e cerimonie sassoni, piuttosto che invenzione del sentimento popolare eccitato dalla «Congiura delle polveri».
Accendere il fuoco è inoltre l’atto istintivo e persistente che l’uomo compie quando, all’inizio dell’inverno, suona il coprifuoco della natura. Rivela una spontanea, prometea ribellione contro la legge che, al ricorrere di questa stagione, condanna la terra a intemperie, fredda tenebra, povertà e morte. Il nero caos sopraggiunge, e gli dei incatenati nel grembo della terra dicono: «Sia la luce.»
I baleni di chiarore e le grevi ombre che s’alternavano, in vivo contrasto, sui volti e sugli abiti delle persone intorno al fuoco, davano ai loro lineamenti e alle loro figure l’aggressivo vigore d’un quadro di Dürer. Ma era impossibile scoprire l’espressione costante di ciascun volto, chè, mentre le agili fiamme si levavano, s’inchinavano e si dissolvevano nell’aria circostante, le chiazze d’ombra e di luce sui volti mutavano continuamente forma e posizione. Tutto era instabile: come un tremar di foglie, come un lampo evanescente. Occhiaie piene d’ombra, fonde come quelle d’un teschio, si trasformavano di colpo in polle di luce; il disegno sottile d’una mascella appariva a un tratto incavato e un momento dopo irradiante chiarore; le rughe s’accentuavano sino a sembrare abissi per poi scomparire completamente allo spostarsi d’un raggio. Le narici erano come pozzi scuri; le vene nel collo dei vecchi sembravano ornamenti dorati; oggetti senza nessuna qualità particolare si coprivano d’una patina brillante; cose lucide, come il falcetto portato da uno degli uomini, parevan fatte di vetro; gli occhi brillavano come piccole lanterne. Quelli che la Natura aveva reso semplicemente bizzarri diventavano grotteschi, quelli naturalmente grotteschi assumevano un aspetto irreale; tutto era portato all’estremo.
È quindi probabile che il volto d’un vecchio, accorso come gli altri al richiamo dei fuochi, non fosse tutto e soltanto naso e mento, come appariva al gioco alterno delle luci e delle ombre, ma una vera e propria faccia umana. Stava a crogiolarsi, soddisfatto, al calore della fiamma. Con un palo appuntito respingeva nel braciere i frammenti di ramo che ne cadevano, guardando fissamente il rogo, alzando di quando in quando gli occhi per misurare l’altezza della fiamma o per seguire le grandi scintille che si levavano nell’aria per poi spegnersi allontanandosi nel buio. Sembrava che la viva luce e il calore penetrante creassero in lui una sensazione di letizia, che divenne presto vero e proprio giubilo. Col bastone in mano si mise a danzare da solo una specie di minuetto, mentre un mazzo di sigilli d’ottone scintillava e ciondolava con ritmo di pendolo dal suo panciotto: e si mise anche a cantare, con voce simile al ronzio di un’ape su un petalo vellutato:
«Il re convocò tutti i suoi nobili,
a uno, a due, a tre;
o ciambellano, vado a confessare la regina,
e tu verrai con me.
«Benone, benone, disse il ciambellano
e piegò a terra il ginocchio,
qualunque cosa dica la regina,
io non ho nulla invero da temer!»
La mancanza di fiato gl’impedì di continuare la canzone; e l’improvviso silenzio attirò l’attenzione d’un uomo di mezza età e dall’aria posata, che sembrava tener gli angoli della bocca ricurva rigorosamente infossati, come per impedire a chiunque d’attribuirgli per sbaglio una qualsiasi ombra d’allegria.
«Bella canzone, nonno Cantle. Ma non è un po’ troppo faticoso per i vostri vecchi polmoni sconquassati?» disse al rugoso festaiolo. «Scommetto che vi piacerebbe aver di nuovo diciott’anni, come quando l’avete imparata, no?»
«Eh?» disse nonno Cantle, smettendo di ballare.
«Vi ho chiesto se non vi piacerebbe ritornar giovane. Il vostro organetto mi sembra ormai un po’ sfiatato.»
«Ma non sono bravo, forse? Se non sapessi tirar in lungo quel poco fiato che ho, sarei un vecchio decrepito davvero, Timothy!»
«Ma che ne è degli sposi alla locanda della “Buona Donna”?» chiese l’altro, puntando il dito verso una vaga luce presso la strada maestra, in un tratto però diverso da quello in cui il venditore d’ocra stava in quel momento riposando. «Che cosa staran facendo? Dovreste saperlo, voi che siete un uomo accorto.»
«E anche pieno di malizia, vero? Sì, debbo riconoscerlo. Mastro Cantle bisogna prenderlo com’è. Ma è un difetto simpatico, vicino Fairway, e di cui guarirò con gli anni.»
«Ho sentito dire che sarebbero tornati a casa questa sera stessa. A quest’ora dovrebbero già essere arrivati. Chi ne sa qualcosa?»
«Non credete che dovremmo andar subito a porger loro i nostri auguri?»
«Io direi di no.»
«No? E io dico di sì, invece.
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