Era una figura mitica, affermai, una delusione e una beffa. L'ultima volta che ne avevo ritrovato uno, raccontai, era successo a una cena: era sepolto sotto una cascata di sciarpe bianche, mostrava un'opinione sconclusionata su ogni possibile argomento e una capacità assolutamente titanica di far ammutolire per la noia. Riferii come, grazie del fatto che eravamo stati insieme all'Old Doylance, lui si era autoinvitato a colazione da me (grossolanità mondana della peggior specie); e, come soffiando sulla debole fiamma della mia fiducia per i ragazzi di Doylance, io lo avessi ammesso a casa mia; come egli si fosse rivelato un ciarlatano di infimo ordine, perseguitando la razza di Adamo con inspiegabili teorie sulla moneta e con l'assunto che la Banca d'Inghilterra, sotto pena di abolizione, dovesse immediatamente emettere e far circolare Dio solo sa quante migliaia di milioni di banconote da sedici "pence".
Il fantasma mi ascoltò in silenzio, con lo sguardo fisso su di me.
- Barbiere! - mi apostrofò quando ebbi finito.
- Barbiere? - ripetei, visto che non è il mio mestiere.
- Condannato - proseguì il fantasma - a sbarbare una clientela sempre diversa; ora me - un giovanotto - ora te stesso come sei; ora tuo padre, ora tuo nonno; e condannato anche a giacere con uno scheletro tutte le notti e ad alzarti con lui ogni mattina...
(Rabbrividii nel sentire questo annuncio funesto).
- Seguimi, barbiere!
Mi ero accorto già prima che quelle parole fossero pronunciate che ero vittima di un sortilegio e che avrei dovuto seguire il fantasma.
Così feci immediatamente, e mi ritrovai fuori della stanza del signorino B.
Molti sanno quali interminabili ed estenuanti peregrinazioni notturne confessarono le streghe che furono costrette ad ammettere le loro colpe e che non c'è dubbio dicevano la pura verità, soprattutto quando venivano incalzate con domande insidiose e la tortura era lì sempre pronta. Vi garantisco che durante la permanenza nella stanza del signorino B. fui trascinato dal fantasma che la occupava in vagabondaggi assolutamente interminabili e selvaggi come quelli. Certo non fui portato al cospetto di nessun vecchio cencioso con corna e coda caprine (una via di mezzo tra Pan e un vecchio piazzista di stoffe) intento a indulgere in inutili convenevoli idioti come quelli della vita reale e meno decenti; furono bensì altre le cose in cui mi imbattei, che mi sembrarono più piene di significato.
Sicuro di dire il vero e di essere creduto, non esito a dichiarare che seguii il fantasma prima su un manico di scopa, poi su un cavallo a dondolo. Sono pronto a giurare sull'odore particolare della vernice dell'animale, specialmente quando lo lanciavo a tutta forza facendolo surriscaldare. Dopo di che seguii il fantasma in una vettura di piazza, un'istituzione con una puzza particolare che l'attuale generazione ignora, ma sulla quale sono di nuovo pronto a giurare: un misto di stalla, di cane rognoso e logoro mantice. (A questo proposito, mi appello alla precedente generazione che confermi o smentisca quanto dico). Seguii il fantasma su un asino senza testa, o quanto meno su un asino così interessato alla sua pancia da tenere la testa sempre abbassata a ispezionarla; su cavallini nati apposta per scalciare all'indietro; sulle giostre e le altalene delle fiere; sulla prima carrozzella, altra istituzione dimenticata dove regolarmente il cliente si addormentava e gli rimboccavano le coperte insieme al vetturino.
Per non annoiarvi con un dettagliato resoconto di tutti i miei viaggi al seguito del signorino B., più lunghi e meravigliosi di quelli di Sindbad il Marinaio, mi limiterò al racconto di un'esperienza dalla quale potrete giudicare tutte le altre.
Ero prodigiosamente trasformato. Ero io, sì, e però non ero io. Ero cosciente di qualcosa in me che era rimasto lo stesso in tutta la mia vita e che avevo sempre riconosciuto immutato in tutte le fasi e le alterne vicende, ciononostante non ero io quello che era andato a coricarsi nella stanza del signorino B. Avevo il più glabro dei visi, le più corte gambe, e avevo portato dietro una porta una creatura a me, simile anch'essa, con il più glabro dei visi e le più corte delle gambe, e le stavo confidando un progetto assolutamente sbalorditivo.
Si trattava della creazione di un serraglio.
L'altra creatura approvò con entusiasmo. Non aveva la minima idea di cosa fosse la decenza e neppure io. Era un uso d'Oriente, abitudine del buon califfo Harun al-Rashid (permettetemi di pronunciare il nome corrotto una volta ancora, tanto profuma di dolci ricordi!), il costume era talmente lodevole e degnissimo di essere imitato.
- Oh, sì- disse l'altra creatura con un salto di gioia. - Creiamo un serraglio!
Non fu perché nutrissimo il benché minimo dubbio sul carattere meritorio del sistema orientale che era nostra intenzione importare, che intuimmo di doverlo tenere nascosto alla signorina Griffin. Era piuttosto perché sapevamo che la signorina Griffin era priva di comprensione umana e incapace di apprezzare la maestà del grande Harun. Così, meticolosamente nascosto alla signorina Griffin, il segreto fu affidato alla signorina Bule.
Eravamo dieci nel collegio della signorina Griffin, situato nei pressi di Hampstead Ponds; otto signore e due gentiluomini. La signorina Bule, che penso avesse raggiunto la veneranda età di otto o nove anni, era al centro dell'attenzione in società. Le confidai la cosa durante il giorno e le proposi di diventare la Favorita.
La signorina Bule, dopo aver lottato contro la diffidenza così naturale e così affascinante nel suo adorabile sesso, si disse lusingata all'idea, ma volle sapere cosa si intendeva riservare per la signorina Pipson. La signorina Bule - che, si capisce in nome dell'amicizia, aveva giurato a quella giovane signora di condividere tutto senza nessun segreto fino alla morte sul libro delle Letture e del Servizio Liturgico, in edizione integrale in due volumi, completo di astuccio e lucchetto - la signorina Bule disse che non avrebbe potuto fingere con se stessa o con me che la signorina Pipson fosse una qualsiasi.
Al che, considerato che la signorina Pipson aveva riccioli chiari e occhi blu (secondo me era l'essenza di quanto in quel che è mortale e femminile è chiamato biondo) io prontamente risposi che mi immaginavo la signorina Pipson nei panni della Bionda Circassa.
- E poi? - chiese la signorina Bule con aria pensosa.
Risposi che lei avrebbe dovuto essere circuita da un mercante, portata velata al mio cospetto e comprata come schiava.
(All'altra creatura era stata già assegnata la seconda carica maschile dello Stato, e così fu investita del ruolo di Gran Visir. Più tardi lei si oppose a tale corso di eventi, ma le furono tirati i capelli finché non cedette).
- Non dovrò essere gelosa? - chiese la signorina Bule, abbassando gli occhi.
- No, Zobeide - risposi - tu sarai sempre la sultana favorita; il primo posto nel mio cuore e sul mio trono sarà tuo per sempre.
Confortata da questa assicurazione, la signorina Bule accettò di proporre l'idea alle sue sette magnifiche compagne. Quello stesso giorno venimmo a sapere che avremmo potuto contare sulla complicità di un'anima dal ghigno perpetuo ma di indole gentile di nome Tabby, l'inserviente della casa, informe come un letto e con la faccia sempre più o meno imbrattata di nerofumo; a quello scopo, dopo cena feci scivolare un bigliettino in mano alla signorina Bule in cui mi dilungavo sul fatto che il nerofumo era stato in qualche modo impresso su quella faccia dal dito della Provvidenza, e indicavo in Tabby Masrur, il famoso capo dei Negri dell'Harem.
Creare l'agognata istituzione incontrò qualche difficoltà, come ne incontra ogni impresa collettiva. L'altra creatura si dimostrò di carattere ignobile e dopo essere stata sconfitta nelle sue aspirazioni al trono, simulò degli scrupoli di coscienza rifiutando di inchinarsi davanti al califfo e di chiamarlo Principe dei Credenti; ne parlò poi in modo sprezzante e indegno, come si trattasse di un individuo qualsiasi. Affermò, quest'altra creatura, di "non voler recitare" - recitare! - e in altre occasioni si dimostrò volgare e offensiva. La meschinità della sua condotta, però, suscitò l'indignazione unanime di un unito serraglio e così io diventai il beato tra i sorrisi di otto delle più belle fanciulle della stirpe degli uomini.
Quei sorrisi potevano essere accordati solo quando la signorina Griffin guardava altrove e solo con grande circospezione, poiché tra i seguaci del Profeta correva voce che lei vedesse attraverso un minuscolo ornamento rotondo al centro del motivo che decorava il dietro del suo scialle. Tutti i giorni però, dopo cena, ci ritrovavamo insieme per un'ora e allora la Favorita e le altre dell'Harem reale gareggiavano su chi dovesse colmare di delizie gli ozi del Serenissimo Harun quando si riposava dalle fatiche del governo: che, come succede in tutti gli affari di governo, in genere si rivelavano di natura aritmetica, poiché il Principe dei Credenti era allergico al far di conto.
In queste occasioni il fedele Masrur, capo dei Negri dell'Harem, si teneva sempre a disposizione (proprio allora la signorina Griffin si metteva a scampanellare come una furia reclamando i servigi di quell'ufficiale) ma non si distinse mai in misura degna della sua memorabile reputazione. Prima di tutto non si riuscì mai a chiarire in modo del tutto soddisfacente perché, nonostante in quel momento avrebbe potuto benissimo farne a meno, si introdusse con una scopa nella sala del Consiglio del califfo anche quando Harun indossava sulle spalle il rosso mantello dell'ira (la mantellina della signorina Pipson). In secondo luogo, sempre sogghignando, si produceva in esclamazioni del tipo: "Cribbio che carucce!" che non erano né orientali né rispettose. In terzo luogo, anche se appositamente addestrato a dire "Bismillah" diceva sempre "Alleluia!".
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