- Ah, brutto… birbone.

- Lei voleva dire un’altra parola; ma non me ne importa.

- Beh, ti do il bacio; ma prima voglio la lettera.

Egli saltò a terra: era piccolo, davanti a lei, come una scimmia. Disse:

- Ecco la lettera; la prenda. Ma se non mi dà il bacio badi che un’altra volta non gliene consegno più; le do a suo padre.

Ella piegò la lettera e la nascose rapidamente in tasca, volgendosi d’istinto a guardare se nel viottolo passava qualcuno: e poiché nessuno passava, in quella specie di corridoio arboreo, che con la sua corsìa di erba e di fiori curiosi e complici, pareva fatto apposta per gl’incontri amorosi, sospirò comicamente rassegnata: dopo tutto i mezzani bisogna pagarli. Si piegò, dunque, baciò la guancia, del resto fresca e liscia, del gobbino; ma egli, che non intendeva questo, si attaccò a lei tenacemente, le si arrampicò addosso, davvero come una scimmia, e non la lasciò finché non solo l’ebbe baciata in bocca, ma coi suoi canini di topo non le addentò il labbro inferiore.

Nei giorni seguenti, non con un certo senso di diffidenza e di vago timore, si accorse che di quelle lettere non ne arrivavano più. Rachele doveva aver informato il pretendente di quanto era avvenuto, e questi non scriveva più, ma forse meditava una facile vendetta. E poiché le lettere non arrivavano di lontano, il gobbo adesso pedalava con sospetto, guardandosi ogni tanto indietro, per paura che qualcuno lo inseguisse con un robusto manganello in mano.

La ragazza inoltre non si faceva più vedere; questo era il maggiore castigo.

Rivederla sulla soglia, sullo sfondo marino dell’altra porta sui prati, chiederle perdono con gli occhi, - perdono, perdono, non per averla offesa, ma per averla forse addolorata ed umiliata, - questa era l’ossessione del povero gobbino.

E con il permesso della contadina, che adesso riceveva la posta, egli appoggiava la bicicletta al muro e girava intorno alla fattoria come cercando di rubare qualche cosa o di ritrovare qualche cosa perduta: ma nulla si vedeva intorno alla casa, se non le grosse galline razzolanti e gli allegri anatroccoli, e l’ombra del gelso sulle finestre socchiuse del piano superiore.

Egli calcolava l’altezza del gelso e il modo di arrampicarvisi per vedere nell’interno delle camere; poi se ne tornava via triste e avvilito. No, la cosa che egli sperava di rubare, era il perdono di lei; e la cosa che egli aveva perduto per sempre, la pace del suo cuore e della sua coscienza, non si trovava più a cercarla in tutta la terra.

Un giorno si fece coraggio e domandò alla contadina dove si trovava la signorina Rachele.

- È malata.

- Che ha?

12

- Mah, l’è un affare strano, che neppure il dottore lo indovina. Bisognerà forse chiamare il professore di Parma.

Alle insistenze trepidanti di lui spiegò meglio l’affare strano.

- È un male in bocca: al labbro inferiore le è venuto un tumore, come l’abbia punta una mosca maligna. Se è il carbonchio, addio.

- Da quando è stato?

- Da martedì, dopo che tu hai portato la posta.

Egli andò via stordito. Altro che il manganello del pretendente: era quello del buon Dio che picchiava sodo sulla sua gobba perversa.

E furono giorni di pena indicibile: poiché le notizie della malata erano gravi, e nonostante le visite in automobile del professore di Parma, il tumore maligno si allargava e si sprofondava mortalmente.

Il gobbo andò in chiesa, e piegato nell’ombra come un demonio deforme schiacciato dall’angelo risplendente, ritrovò preghiere sublimi.

- Signore, tu mi avevi dato un povero corpo ma un’anima ricca; e tutto io ho capovolto in un momento. Io volevo conservare l’anima mia nel mio corpo come l’olio puro d’oliva nell’orcio gobbo, per ripresentarla a te tutta luce e tutta fiamma.