Di tutte e di nessuna.
Quella seconda domenica del mese che portava il suo nome, aveva veduto in chiesa, per la prima volta, le donne giovani del paese sgusciare dalle loro vesti scure, nonostante la presenza di Dio, come durante una di quelle antiche tregende, delle quali si sentiva vagamente raccontare. Il sangue gli urlava nelle vene, per il desiderio e l’orrore del peccato. All’uscita della messa si era fermato davanti alla porta della chiesa, guardando negli occhi, una per una, le giovani donne: qualcuna aveva risposto con lo sguardo: una specialmente, la più sfrontata e sensuale, la figlia del becchino, che aiutava il padre a seppellire i morti.
E negli occhi di lei, verdi e perlati, simili a quelli della civetta, egli aveva veduto tutto l’abisso dell’amore carnale.
Adesso questi occhi lo perseguitavano dovunque egli andava: e per dimenticarli e per ritrovarli, andava, andava, di qua, di là, al bosco, al fiume, ai prati più lontani dove il verde dell’erba pareva acqua stagnante. Ma non amava la donna: né lei, né altra. O meglio ne amava una che non esisteva, che era forse lassù nelle rovine del castello in cima al monte, ma che egli non avrebbe conosciuto mai.
- Turbolenze della sua età - diceva il padre, puntandosi l’indice sulla fronte.
- Mi viene un’idea, moglie mia. Facciamo venire in casa, come servente, qualche bella ragazzina: quando se la troverà accanto vedrai che si placherà: e se qualche conseguenza ne avviene, il rimedio si troverà.
La moglie non approvava: in fondo al cuore ella preferiva Aprile irrequieto ma suo, piuttosto che sedotto da una servente qualunque. Ma poiché il marito le assicurava che avrebbe portato in casa una fanciulla di buona razza, accondiscese.
Venne la sedicenne Guendalina del boscaiuolo, che odorava di funghi, alta anche lei, con due lunghe trecce nere che, quando ella si piegava sui fornelli, ci andavano dentro e prendevano fuoco. Era ancora stordita e un po’ stecchita, è vero, con gli occhi azzurri vuoti; ma appunto per la sua innocenza piacque alla madre di Aprile. Accadde però come quando si era tentato di dare una compagna al corvo addomesticato che tenevano in casa: invece di accogliere con amore la femmina, l’uccellaccio l’aveva uccisa a beccate.
Aprile, rientrato dalle sue scorribande, guardò la fanciulla come una nemica mortale: non poteva ucciderla, anche perché la madre vigilava, ma andò fuori di nuovo, tutto in tumulto. Capiva il tranello, sentiva l’affetto che Guendalina destava nella madre, e a sua volta gli pareva di essere derubato di qualche cosa e scacciato via da un luogo che era stato sempre esclusivamente suo.
14
Camminò a lungo, fino alla cima del monte. Tra le rovine del castello le cornacchie si abbandonavano a un’orgia primaverile: sbucavano da ogni angolo, si facevano dispetti, si rincorrevano nell’azzurro del cielo con giovani stridi d’amore. Indispettito, il giovine si arrampicò sulle rovine, tirando sassi dentro i nascondigli, dai quali gli uccelli fuggivano spaventati.
Giunto sull’avanzo di uno spalto, sedette sull’erba che vi cresceva e guardò ai suoi piedi le chine coperte di felci, il bosco, la valle fiorita. Il mondo sembrava un giardino, ma egli vi si sentiva escluso come Adamo dal paradiso terrestre. Un dolore infinito lo avvolse: il dolore della sua impotenza ad amare, mentre l’amore rideva e vibrava anche in cima alle foglie secche delle felci vecchie. E desiderò profondamente la morte.
- Ma che anche gli altri soffrano con me: sopratutto mia madre.
Si stese sull’orlo dello spalto, supino, e chiuse gli occhi. Ed anche l’infinito occhio azzurro del cielo parve chiudersi con desiderio di morte. Le nuvole lo coprirono: dai nascondigli delle rovine sbucarono i venti, spazzando via le cornacchie come foglie nere. Il freddo incrinò l’incanto della primavera: e il lamento delle cose, giù dall’acqua del fiume fino ai cespugli che coronavano le rovine, parve il pianto per la morte di Aprile.
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