La madre, non vedendolo tornare a casa, andò a cercarlo. L’istinto la guidava; sentiva come la traccia dell’odore di lui lungo i sentieri del bosco e tra le felci vecchie e nuove calpestate dal suo passaggio. Il vento la respingeva, la gelava tutta; ma il suo dolore e il suo rimorso erano più forti della bufera; e vinsero le pietre delle rovine, e il terrore delle tenebre che le trasformavano in mostri. Finché giunse allo spalto dove Aprile, già freddo, bianco e duro come una statua, agonizzava. La madre si strappò le vesti per coprirlo, tentò di scaldarlo col suo alito, se lo mise in grembo come il Cristo deposto: e non piangeva, non parlava. I venti urlavano per lei, e all’alba, quando tutto si placò, le cornacchie curiose, dall’orlo delle buche, allungarono il collo per guardare il gruppo della madre e del figlio morti assieme.

Per questo la leggenda popolare dice che Aprile fece morire la madre a furia di freddo.

A consolare il padre arrivò quella mattina stessa il figlio Maggio, quello che non aveva scrupoli, che era l’amante anche della Luna, e a ogni donna che incontrava, fosse pure una vecchia bacucca, regalava un bacio e una rosa.

LA PROMESSA

Coperti di stracci, abbrustoliti dal freddo, con certi scarponi che affondavano nelle pozzanghere come draghe nel porto, tuttavia sani, allegri e sudicioni a più non posso, i bambini della lavandaia se ne stavano quasi tutto il giorno davanti alla finestra bassa della cantina, dove la madre, vera figura da

“novecento”, tutta ossa e ventre, con la grande faccia ovale e nivea dentro una cuffia di capelli neri ridotti a stoffa, lavava e sbatteva i panni con un fracasso da terremoto.

Ogni tanto uno dei bambini si attaccava all’inferriata della finestra e si sporgeva su quella bolgia livida di fontana in tempesta, di panni sporchi, di lenzuola attortigliate come serpenti grigiastri.

- O ma’, ho fame.

- Ecco, tesoro.

La madre si allungava e gli porgeva un pezzo di pane umido, che il bambino succhiava come un frutto. Su e giù, nelle due strade larghe, alle quali la via privata, in pieno possesso dei figli della lavandaia, faceva da ponte, passavano ragazzini impellicciati, coi guanti di lana, i berrettini rossi che ricordavano l’estate coi suoi papaveri; passavano le balie vestite di azzurro, spingendo le carrozzelle con dentro gl’infanti caldi sotto le loro coperte di felpa; e il sole, che non si degnava di penetrare nella via privata, li accompagnava benevolo; ma i nostri bambini non si curavano di loro, non li invidiavano, non li conoscevano. Avevano caldo, anche se erano intirizziti; e per esaltarli bastava un ciottolo che si sbattevano l’un contro l’altro senza misericordia; e 15

quel pezzo di pane, e quello sguardo nero e dorato della madre, che veniva su dalla fontana come il raggio della stella nel pozzo.

E poi c’era la distrazione delle commissioni.

- Pippo, va dal fornaio e ti fai dare un pezzo di sapone: pagherò poi io.

Pippo è appena tornato di scuola, ma non intende di fare il compito. Corre più volentieri dal fornaio: i fratelli lo seguono; uno inciampa, gli altri ridono; Pippo salta la catena che sbarra l’ingresso della via privata; impone alla fratellanza di non seguirlo oltre, scompare. Minuti di trepida attesa. Tornerà Pippo? O se lo porta via quel signore grigio terribile che ruba i bambini e li sgozza in un prato? Momenti di sollievo e di pazza allegria. Pippo torna col sapone avvolto in un foglio di carta turchina. Dato il sapone alla madre, questo foglio, che ha il colore del cielo invernale, rimane di sua proprietà: ma egli deve difenderlo contro la bramosia dei fratelli, e corre su e giù agitandolo come una bandiera trionfale. Grida, risate, male parole: la felicità dei poveri è fatta di questo.

Non sempre le commissioni erano allegre.

- Pippo, va dalla signora Carlotta, e le dici così: la mamma prega di scusarla se ancora non le ha portato la biancheria, perché ha il piccolo Lello malato con la febbre alta.

Pippo andò, ma questa volta solo. I fratelli rimasero aggruppati, un po’

intontiti e freddolosi, davanti alla finestra della camera attigua a quella della fontana, dove il piccolo Lello giaceva nel grande letto comune: e contro i vetri chiusi schiacciavano il naso rosso moccioso, come fiutando l’odore di morte che saliva dalla tetra dimora.

Ma il ritorno di Pippo, il solo che, del resto, non aveva mai perduto la sua prepotente gioia di vivere, li riaccese come freddi candelini spenti. Egli agitava le mani con le dita aperte, chiudeva gli occhi per frenarne il fulgore, stringeva le labbra e scuoteva la testa con una meraviglia che rasentava lo spavento.