- Che cosa ho visto io! Che cosa ho visto io!
Ma non voleva, non riusciva a dirlo.
- Oh, abbasso le mani! Se continuate a pizzicarmi così, non ve lo dico davvero.
Gli altri insistono con violenza.
- Ho veduto un uccello che parla, ecco!
Sorpresa di tutti. Domande sopra domande. È un pappagallo? Un corvo? Una gazza?
Niente, niente. È un uccello che ha gli occhi celesti, le ali celesti, la punta del becco celeste. Sta sulle scale della vecchia e stramba signora Carlotta, e saluta chi entra.
- Ma va, sarà un uccello meccanico.
- Proprio! Va a toccarlo e senti che beccate. Mi ha detto: buon giorno; poi ha chiamato il cane e lo ha deriso: gli ha detto: Lino, somaro! Lino accorre sempre che si sente chiamare dall’uccello, perché sa che allora c’è gente. Com’è la sua voce? Come quella di nostro cugino Romoletto.
Romoletto era un sordomuto, educato da certi preti.
I bambini si misero ad imitarne poco cristianamente la voce inumana, correndo fino alla porta chiusa della signora Carlotta, davanti alla quale si fermarono come prima intorno alla loro finestra. Ma ben altro il mistero che scendeva dalle scale della vecchia straniera: mistero di favola, di cose belle sovrannaturali.
Suonarono il campanello: poi scapparono, mentre una parrucca bionda appariva come una scopa alla finestra.
- Cattifi pampini, cattifi pampini!
Diventarono davvero cattivi, o almeno più irrequieti del solito. Volevano a tutti i costi vedere e sentire l’uccello, e la vecchia signora, chiusa nella sua fortezza, rappresentava per loro la strega che nasconde il tesoro. Quindi, in permanenza, davanti alla sua porta, montavano uno sulle spalle dell’altro per guardare nel buco della serratura, suonavano il campanello, lanciavano sassolini alle finestre. Finché la signora Carlotta non minacciò di buttar loro addosso una catinella d’acqua bollente. Fosse stata fredda, l’avrebbero magari accettata; ma l’acqua bollente scotta, e può far morire.
16
Questo lo affermò la madre, quando glielo vennero a raccontare. C’era anche il padre, anche lui piccolo e rosso come un ragazzino, col vestito chiazzato di calce e in testa il berretto di carta dei muratori. Stanco e affamato, mentre la moglie preparava la zuppa di fagioli, si aggirava intorno al letto dove il bambino malato apriva e chiudeva ogni tanto gli occhi di sorcio, e pensava che avrebbe dato volentieri metà del suo sangue per far guarire subito il suo piccolo Lello.
Ma Lello forse non era tanto malato come i genitori credevano, perché tendeva le orecchie al chiacchierìo dei fratelli raccolti intorno al fornello a carbone sul quale bolliva la pentola dei fagioli.
Si parlava dell’uccello. Di che si doveva parlare, al mondo, se non dell’uccello celeste? Anche la madre, sebbene preoccupata per il bambino, prendeva parte alla conversazione: e Pippo, invece di fare il compito di scuola, raccontava per la centesima volta la sua avventura.
- Mi ha detto: buon giorno: poi ha detto: Lino, somaro; poi ha detto…
- Ma se io, tante volte che sono andata dalla signora Carlotta, non l’ho mai veduto? - insiste la madre, anche per mettere in calma i bambini.
- Eh, si vede che lo ha da pochi giorni.
- L’uccello…
È il piccolo malato che interviene.
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