- Che cosa, che cosa? -. Penso subito a un gioiello, e resto quasi disillusa quando egli trae dalla tasca interna della giacchetta una piccola penna d’oro, che per la forma, il colore e la leggerezza sembra quella di una pernice.
- Ecco il sindaco, che offre la penna d’oro agli sposi.
- Ascolta, - dice, poi china la testa, provando con l’unghia il pennino, e come ascoltando una vibrazione misteriosa sèguita: - tu devi scrivermi sempre con questa penna. E devi scrivermi tutto, di te, quando non saremo vicini.
Io ho un senso di paura, ma prendo subito la penna, tocco anch’io il pennino con la punta dell’unghia e ascolto: una vibrazione distinta sale dal mio cuore col suono delle mie parole.
2
- Noi saremo sempre vicini, anche se la sorte dovesse separarci fino alle estremità della terra.
Allora egli mi prende per mano e ritorniamo giù.
Giù mio padre si affatica a collocare i materassi sui letti. Anche Fausto e Billa ne trascinano uno, spingendosi a vicenda, finché rotolano assieme, seppelliti dal materasso. Il fidanzato si affretta a salvarli; quei birboni per compenso lo tirano con loro e solo la sua agilità gli risparmia la brutta figura di cadere anche lui. Le camere sono piene delle risate di tutti: anch’io rido, ma non so perché ho quasi terrore di questa letizia risonante che scuote le cose. Ho nascosto la penna dentro la scollatura del vestito e la sento come una freccia nel cuore.
Mio padre invita il fidanzato a rimanere a cena con noi.
- È la notte di San Giovanni; è la prima notte che passiamo qui. Rimani.
Egli si scusa, sebbene avvinto e incalzato dai bambini che non vogliono lasciarlo andare.
- Un’altra sera, cari, un’altra sera.
Anch’io non ho piacere che egli resti, perché per cena abbiamo solo uova e salumi.
Lo riaccompagno giù; ma prima di andarsene egli m’invita a spingerci fino al ciglione in fondo alla strada, dove comincia la campagna. Ci sediamo un momento sulla proda coperta di fieno; è quasi notte, ma nel crepuscolo luminosissimo si vedono ancora le quercie verdi, l’erba sanguinante di papaveri, i canneti glauchi, le macchie gialle della ginestra fiorita.
È la sera di San Giovanni: si sentono già i rumori della festa, lo strido selvaggio delle cornette e qualche sparo: d’un tratto un fuoco si accende come da sé sulla china opposta della valle, e illumina il paesaggio con un riflesso rosa.
- Bisogna che vada - egli dice, riversandosi invece sull’erba. - Perché, perché non possiamo stare sempre così? Perché non possiamo sposarci stanotte e dormire qui? Domani, - riprese, sollevandosi di scatto, - domani non posso tornare: esco tardi dall’ufficio e adesso siamo lontani. Verrò dopo domani, domenica. Vuoi darmi un bacio?
Poi ridiscendiamo il sentiero, ed egli se ne va, nella sera incantata.
L’incanto durò fino alla domenica seguente.
Il sabato venne il tappezziere e mise le tende: una lieve penombra ondulò sul fulgore delle stanze, come il velo sopra la culla dei bambini. D’altronde era necessario, perché già le mosche si precipitavano dentro casa, con disperazione di Giglina, la serva.
Dico serva per modo di dire, poiché questa Giglina era per noi più che una parente, e ricordandola adesso, a distanza di anni, mi pare un personaggio fiabesco, una figura di sogno.
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