Più che noia, la sua era la scontentezza o meglio l’irrequietudine variabile dell’età e della stagione. I lunghi bagni di mare, i giochi violenti della spiaggia lo avevano seccato e teso come una corda che sta per rompersi. Adesso la campagna piatta e monotona, con le sue greggie di vigne e di frutteti bassi troppo carichi di cose da mangiare, gli sembrava un luogo di pena; e nei contadini dalla voce rauca e grassa, nelle loro donne senza carne, bruciate dalla fatica e dall’abbondante figliolanza, e in questa figliolanza stessa, a dire il vero composta quasi tutta di bambini brutti, sudici, seminudi, non vedeva che una umanità inferiore, animalesca.
Forse per legge di contrasto, gli piacevano invece le bestie: eccolo incantato a guardare i monumentali giovenchi grigi, ancora aggiogati, all’ombra di un platano, dopo la fatica della prima aratura. Sono ancora ansanti, con le grandi corna nere eguali e perfette come levigate da uno stesso artista, gli occhi rassegnati e buoni.
E le anatre, le oche maestose, i pulcini d’oro, il cane mattacchione, i gatti semiselvaggi e ladri, la donnola legata e irrequieta che guardava con occhi scintillanti come goccie di rugiada nera, tutti gli piacevano e lo stupivano.
29
Una mattina stava appunto da un quarto d’ora a spiare chino sul basso della siepe una piccola talpa che si affacciava ogni tanto tra le foglie come anch’essa spiando quel lungo e ignoto animale innocuo, quando sentì i due figli gemelli del capoccia vociare a poca distanza, contrastandosi un oggetto del quale non si capiva la natura. Le loro voci, già aspre e violente, lo avevano altre volte irritato; poiché i due ragazzi, che litigavano sempre, avevano pretese da padroni, e si trovavano d’accordo solo nel maltrattare gli altri bambini.
Lasciò dunque il suo posto di osservazione e si allungò per veder meglio: e subito si fece rosso in viso e digrignò i denti.
I due gemelli, camusi e gialli come cinesi, vestiti con certe vecchie maglie rosse che li facevano apparire più selvaggi, questionavano per un uccellino che uno di essi teneva stretto nella mano già grande e ossuta.
Nell’accorgersi del padroncino stettero zitti, quasi odorando il vento infido, e quello che teneva l’uccello tentò di svignarsela. Ma il padrone lo raggiunse presto coi suoi lunghi e volanti passi di corridore.
- Gabriele… - mormorò il ragazzo.
- Anzitutto ti ho già avvertito di non chiamarmi col mio nome solo e di non darmi del tu, poi mi dici dove hai preso quell’uccello.
Anche la sua voce era la voce rauca e rombante degli adolescenti in crescenza: e spaurì ma irritò in pari tempo il gemello, che guardò coi suoi occhi verdi sfrontati il giovane e già autoritario padrone.
- Non l’ho preso io. L’ha preso ieri il babbo ch’è andato a caccia: è ancora ferito.
Questa notizia parve sbalordire Gabriele.
- Fa’ vedere.
L’altro aprì le dita, ma l’uccello, invece di passare nella mano di Gabriele, sgusciò giù e cadde a terra svolazzando. Era miseramente mutilato, con una grande raggiante ala d’argento e d’azzurro e l’altra sanguinante mozzata di tutte le sue penne e di un pezzo di carne alla sommità.
Quando si ricompose, richiudendo le ali, e la punta di quella sana sopravanzò la breve coda, apparve tuttavia bellissimo, con la testina bruna coronata di una stella d’argento, le zampine palmipedi, e due grandi occhi tutti neri nei quali a Gabriele apparve per la prima volta il mistero del dolore senza speranza.
Egli s’inginocchiò; prese l’uccello e se lo strinse al petto; lo sentì palpitare contro la sua mano; e gli parve che il suo cuore rombasse.
Poi si sollevò, inquisitore, feroce.
- Perché tuo padre ha sparato contro quest’uccello?
- Che ne so io? Perché era a caccia.
Con la mano libera Gabriele afferrò il polso del ragazzo e si piegò quasi volesse morderlo.
- Piantala, con quegli occhi! - urlò. - Non voglio essere guardato così. E
rispondi: perché tuo padre ha portato a casa quest’uccello? Da mangiare non è buono.
Allora l’altro gemello, ch’era rimasto a rispettosa distanza, gridò:
- Per quello che gli pare e piace.
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