E sparve. Gabriele non si degnò neppure di guardare da quella parte; le sue unghie mordevano il polso del ragazzo, i suoi occhi se lo divoravano vivo.
Smarrito, il gemello cercò di difendere il padre.
- Lo ha portato a casa per farci divertire.
Mai avesse parlato così. Gabriele gli torse il braccio e cominciò a farlo girare attorno a sé, tempestandolo di calci furibondi, da tutte le parti, fin dove la sua gamba lunga e snodata e il suo piede da calciatore potevano arrivare. E fu un torneare fantastico, perché l’avversario reagiva, con agilità serpentina, valendosi anche del braccio libero, mentre Gabriele non cessava di stringere l’uccello al suo petto ansante. Finché tutti assieme in mucchio non caddero sull’erba della radura, e il gemello batté la testa sul tronco abbattuto che li aveva fatti inciampare: allora mugghiò, come un toro ferito.
Gabriele fu il primo a sollevarsi: vide il sangue stillare dal sopracciglio destro dell’avversario, e si placò; anzi un istinto di paura lo spinse a guardarsi intorno: ma gli parve di essere in un luogo sconosciuto e quasi incantato. Non si vedeva anima viva nella distesa dorata della vigna che sconfinava con la serenità cilestrina dell’orizzonte: e solo laggiù, dietro la 30
linea boschiva dei frutteti, il fumo che sbocciava dallo stelo di un comignolo ricordava che altri uomini, oltre quei due lì, nemici per la vita, esistevano nel mondo.
Il vinto si era sollevato sul tronco e annaspava l’aria come tentando di galleggiare; poi ricadde sul fianco: il sangue continuava a solcargli la guancia, ma erano poche gocce lente, come di sudore, e Gabriele si rassicurò.
Disse, spietato:
- E non fiatare, sai, con nessuno. Altrimenti faccio mandar via tuo padre.
Capito?
Poi se ne andò, facendo culla delle mani all’uccello ferito.
Lo portò nella sua camera, lo mise sul letto, e poiché l’infelice tentava di sgusciar via gli formò una specie di nido con l’asciugamano. Per un momento l’uccello parve assopirsi; ma appena Gabriele si allontanò per cercargli del cibo, svolazzò di nuovo, fino a precipitare giù dal lettuccio: il ragazzo lo trovò con l’ala sana tesa e tremante, gli occhi grandi pieni d’angoscia. Sul tappeto chiaro una macchia di sangue segnava come un piccolo garofano stroncato dallo stelo.
Allora cominciò una lunga pena per l’adolescente: una pena femminea, materna, mai provata. Girò per la casa, finché non trovò una sporta, il cui fondo imbottì di ovatta: di là dentro l’uccello non poteva uscire né farsi più male: e infatti vi si accovacciò, come usava sulle gramigne fresche dell’arenile nei giorni felici che non dovevano tornare mai più. E per quante cose buone il suo salvatore gli porgesse, non apriva il lungo becco nero né muoveva la piccola testa segnata dall’astro del dolore.
Finché la serva non si accorse del dramma e mise il cespuglio rossastro della sua testa sopra la sporta che Gabriele le aveva portato via di cucina.
- Benedetto da Dio! Ma questo è un uccello di mare, e non mangia che pesciolini freschi.
Gabriele sollevò il viso mortificato con gli occhi scintillanti di speranza.
Il mare non è vicino al podere, ma neppure così lontano da non arrivarci in bicicletta: ed egli corre a prendere proprio la bicicletta sulla quale il capoccia è andato a caccia nella pineta del lido. Nell’ingresso della casa colonica, dove stanno appoggiate alla parete le biciclette dei contadini, c’è una insolita confusione: i bambini bisbigliano, spiando intorno ad un uscio socchiuso; dall’uscio di contro vien fuori una donna pallida, con un bicchiere d’aceto e uno straccio in mano; il secondo gemello, congestionato in viso, con gli occhi di vetriolo, balza davanti a Gabriele e gli dice a denti stretti:
- Sei tu che hai ferito mio fratello? È svenuto e forse muore.
Gabriele porta fuori la bicicletta: l’altro cerca d’impedirglielo e riceve, con una spinta che gli fa mancare il respiro, questa formale promessa:
- Se non la smetti ti dò tanti di quei cazzotti che svieni tu pure.
E via sulla bicicletta fulminea, verso la marina, in cerca di pesciolini vivi per l’uccello ferito.
STORIA DI UN CAVALLO
In apparenza sembrava ancora giovane, nobilmente fermo sulle zampe, coi lunghi garetti sottili, tutto nero, lucido e grasso; ma bastava osservargli la bocca e gli occhi per indovinare la sua età: gli occhi erano appannati, violacei; e in bocca gli rimanevano sei denti gialli come fave secche. Eppure aveva ventiquattro anni.
- Ma ventiquattro anni, per un cavallo, e un cavallo che è stato anche da corsa, sono come i miei ottanta suonati.
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