Con la differenza che io me la sgambetto ancora e faccio i miei bravi piccoli affari, mentre Fortunato vegeta, e gli viene l’asma solo a condurlo all’abbeveratoio.

Parlando così, il padrone esagerava: perché, invece, l’ora più bella della sua lunga giornata di noia era per il vecchio cavallo appunto quella dell’abbeveratoio. E, a dire il vero, il padrone ce lo mandava più per fargli fare una passeggiata che per altro. La strada in pendio era sempre la stessa di un tempo, quando il figlio più giovane e avventuroso dell’ottuagenario la 31

percorreva col giovane morello, recandosi alle corse paesane, delle quali vinceva immancabilmente il primo premio: e il cavallo, che il vecchio possidente teneva sacro come un ricordo del figlio morto da valoroso in guerra, pareva ricordasse il passato, perché nel sentire l’odore dei canneti della valle protendeva di qua e di là la testa melanconica, aprendo le froge e respirando forte. Quando poi la strada sboccava sullo stradone, a mezza costa del monte, dove la lunga vasca d’acqua bruno-verde dell’abbeveratoio invitava alla fermata, i suoi occhi si animavano e raccoglievano il riflesso della grande valle chiara di vigne, di olivi, di seminati: poi si volgeva per bere, svogliato e lento, mentre il servo che lo conduceva, anche lui vecchio, anche lui mezzo pensionato nella casa del ricco padrone, scambiava qualche parola coi radi passanti che scendevano dal paese o vi risalivano.

- E questa bestia, dunque, ancora campa?

- Pare di sì, se ancora beve e mangia.

- Ma di’ al tuo padrone che lo mandi alla concia, e i soldi che spende per mantenerlo li passi a me.

- Va, e prova a dirglielo tu, se ne hai il coraggio. Del resto, neppure alla concia ci vogliono oramai, caro compare Fortunato.

Al colpo della manaccia del servo il cavallo trasaliva, sollevando la testa, e le gocce che gli calavano dalle narici parevano lagrime.

Un giorno il padrone si ammalò e mandò a chiamare il parroco per confessarsi. Il prete era giovane, intelligente e spregiudicato: non si meravigliò quindi per la straordinaria abbondanza e varietà dei peccati del ricco vecchione; ma quando si giunse alla fine e vide il grande viso grigio e barbuto del malato solcarsi di ansietà, e gli occhi chiudersi forte come per un dolore fisico, indovinò che altro e di ben grosso c’era.

- Altro?

L’uomo riaprì gli occhi, che in quel momento rassomigliavano a quelli del cavallo quando riflettevano la valle dorata dal sole.

- C’è questo. Mio figlio Alessio, quello morto in guerra, desiderava un cavallo da corsa. C’era un mio compare, non ricco, ma onesto e laborioso contadino, che ne possedeva uno: un puledro natogli per caso dalla giumenta da tiro, già domato, bello e rapido come una saetta. Vado e dico: «Compare, vendetemi il puledro; lo chiameremo Fortunato, e tale sarà. Per i denari, grazie a Dio, non avete che a dire una cifra».

Così dicendo, - proseguì il malato, richiudendo gli occhi, - io toccai la cintura, dove tenevo la borsa. Mai lo avessi fatto. Il compare, che dapprima ascoltava benevolo, si fece nero in viso, come per una crudele offesa. Poi rise; un riso stridente che mi sega ancora l’anima. Dice: «Il mio cavallo? Se me ne dessero in cambio uno d’oro non lo cederei neppure a mio fratello». E non ci fu verso di fargli mutare parere. Ma appunto per il rifiuto, il mio Alessio s’innamora del cavallo e lo vuole a tutti i costi. Io stesso mi sentivo punto, perché il compare non cedeva la bestia per semplice orgoglio: se io gliela avessi chiesta in regalo me l’avrebbe data: l’accenno alla borsa, con la sicurezza che dà il denaro, lo aveva invece offeso e indignato. Così ne nacque una vera inimicizia. Una notte ignoti ladri tentarono di penetrare nella stalla dove il compare teneva prigioniero il puledro: egli incolpò mio figlio, che per lo sdegno minacciò di ucciderlo. Si passarono brutte giornate: io avevo paura di una grave disgrazia, e cominciai ad odiare con tale veemenza l’uomo al quale un tempo volevo un bene da fratello, che giorno e notte lo coprivo di maledizioni.

Arrivato sono al punto di chiedere a Dio la sua morte; infatti, il giorno di Sant’Anna, sì, il 26 luglio del 1906, andai alla messa, e al momento dell’Elevazione domandai la grazia di essere liberato dal mio nemico.