E nello stesso tempo imprecavo, poiché egli mi aveva condotto a quel punto. «Maledetto tu sii, - dicevo, - per il tuo orgoglio e le tue calunnie; che tu possa morire questa notte, e l’anima tua reietta penetri nel corpo del tuo cavallo infernale».

Ebbene, - riprese il malato, ansando ancora al ricordo, - la stessa notte l’uomo morì: nella stalla si sentirono strepitare i cavalli, e quello che aveva provocato tanti guai fu il giorno dopo trovato gonfio e di un colore più nero del solito. Nessuno sapeva della mia maledizione; io solo, da quel giorno, mi trovo con questa davanti a Dio, che me ne chiede conto. Saranno superstizioni; 32

ma la mia coscienza è diventata come un tumore maligno. Dopo la morte dell’uomo, quando il cavallo fu guarito del suo gonfiore, gli eredi stessi vennero ad offrirmelo: lo presi, e mio figlio lo portò a tutte le corse del circondario.

Egli non sapeva che cavalcava un’anima in pena, e che un’altra anima in pena ero io, sempre pauroso che gli accadesse una disgrazia. Dopo la morte sua gloriosa, io tenni il cavallo per ricordo di lui, ma sopratutto per quella fissazione mia.

Tante volte ho pensato di ammazzare la bestia, per liberarmene, ma non ne ho mai avuto il coraggio.

Il prete, con voce quasi ironica, tentò di rassicurare il vecchio.

- Il vostro peccato è sopratutto di superstizione, di offesa a Dio. Se Dio si lasciasse convincere dalle maledizioni degli uomini, a quest’ora il mondo sarebbe distrutto: e il castigo voi lo avete già avuto nella vostra pena stessa.

L’altro scuoteva la testa sul guanciale, non convinto né confortato, e non si chetò neppure dopo avuta l’assoluzione.

Nella notte lo sentirono vaneggiare, parlando col cavallo come con una persona viva; e rifaceva anche la voce del compare morto.

- Compare, non mi dispiace altro che di vivere prigioniero e inoperoso: questa umiliazione, no, non ve la perdonerò per l’eternità.

Nel sentirsi aggravare, il vecchio chiamò il servo che accudiva al cavallo.

- Ascoltami: tu hai qualche anno ancora da campare, perché voi poveri siete più sani e più forti dei ricchi, malanno a noi. Ti raccomando Fortunato: lo farai pascolare in libertà, quando il tempo è buono; quando farà freddo lo riporterai nella stalla. In cambio ti lascio in eredità il mio frantoio e l’altro cavallo buono. Accetti? Sì, bravo, dammi la mano.

Il servo prese nella sua la mano umida e ardente del padrone, e giurò che avrebbe trattato il cavallo come un cristiano. Nei primi tempi, infatti, dopo la morte del vecchio, mantenne la promessa. Era ancora la buona stagione: il cavallo fu portato al pascolo in un prato della valle, sotto la verde scalea delle vigne che saliva fino al cielo; ma parve soffrirne: brucava svogliatamente l’erba d’autunno, e la notte starnutiva e non si sdraiava mai. Ogni volta che andava a vederlo, il suo nuovo padrone lo trovava deperito, sempre più magro, tonto e triste: e in fondo desiderava che morisse, per potersene liberare.

Gli si ammalò, invece, e morì in pochi giorni il cavallo giovane, quello da tiro e da fatica. Fu per il vecchio servo una vera tragedia: poiché era già il tempo delle olive, e per campare, non ricevendo più dagli altri eredi del padrone morto sussidio alcuno, egli contava sulla rendita del frantoio.

Un giorno di autunno, che già cominciava a far freddo e a piovigginare, andò a riprendere Fortunato per riportarlo a casa. Lo trovò affacciato alla muriccia del prato, tutto nero e intirizzito sullo sfondo della caligine; e gli parve che lo aspettasse.

- Come va, compare?

Gli occhi del cavallo si animarono e rivolsero uno sguardo quasi umano al nuovo padrone: quando poi questi gli diede il solito colpo con la mano aperta, nitrì a lungo. E il vecchio si sentì echeggiare quel nitrito nelle vene, come un brivido misterioso provocato da un senso di rivelazione panica.