Le serve della contrada diminuite di numero; diminuiti i quattrini, le chiacchiere, ed anche le scarpe da aggiustare: e queste terribilmente devastate.

Anche quelle del signorino, portate senza tanti involgimenti dalle ruvide mani della sora Concetta, faccendiera di tutto il quartiere, hanno i tacchi ben consumati e una spaccatura fra le rughe del tomaio.

- Che la pezza non si veda, mi raccomando - dice la donna con la sua voce da ubbriacona.

Il sor Pio guarda con pietà le scarpe: con pietà; eppure cupamente beffardo domanda:

- Che, deve andare a sposarsi, con queste calzature?

La sora Concetta è una romana papale, di quelle che danno del pane a lo pane, e del vino a lo vino: non ama quindi gli scherzi, e battendosi l’indice sulla fronte dice all’uomo:

- Sei già vecchio, ma la tua capoccia è sempre da affittarsi.

Questa considerazione lascia il ciabattino pensieroso.

Sì, invecchiando, egli sentiva nel suo cervello turbolento qualche spazio vuoto, e non riusciva più a riempirlo col collocare a modo suo i ranghi dell’umanità.

Si vedono succedere certe cose, nel mondo! Le rivoluzioni avvengono senza che nessuno si scomodi a farle, e, a parlare all’antica, il mondo è proprio fatto a scale: chi le scende e chi le sale.

La famiglia del Signorino le scendeva, anzi le aveva già scese più che a metà. E

il ciabattino, slegando i lacci delle scarpe mortificate che odoravano ancora del piede delicato del giovine, risaliva coi suoi ricordi questa scala: rivedeva ancora il corteo di lusso, che uscendo dal villino di fronte al suo bugigattolo, aveva condotto al battesimo il bel bambino vestito di azzurro; rivedeva la balia nera e sgargiante come un’ottentotta da fiera; poi la bambinaia tedesca dura e lunga che pareva avesse inghiottito un palo da telegrafo; e infine rivedeva lui, solo, il bambino dai riccioli chiari, arrampicato alle balaustrate delle loggie, sporgersi in giù con le braccia aperte come un uccellino che vuol tentare il 36

primo volo. Di bambino divenuto ragazzo, si era poi allungato e imbrunito; ed un giorno di autunno, dopo la solita assenza estiva, il ciabattino lo aveva veduto irrompere fuori del cancello come un giovane levriere sfuggito al laccio, alto e agile, con le gambe nude ed un pacco di libri sotto il braccio.

Andava a scuola: e tanto andò a scuola che si trasformò in professore. Neppure sotto questo aspetto si impose al sor Pio: era troppo bello, troppo fresco, troppo fortunato, per farsi amare o almeno rispettare da lui.

C’erano giorni, anzi, che l’odio più schietto e le imprecazioni più romanesche del vecchio troglodita lo accompagnavano. Erano i giorni di sole, d’inverno, quando l’uomo sbucava dalla sua caverna come l’ippopotamo dal fondo melmoso del fiume, e, trasportati i suoi strumenti e le sue ciabatte sul marciapiedi caldo, mentre con le mani e con la bocca lavorava di lesina, di spago, di pece e di rabbia, vedeva a fianco del villino di fronte, in uno spazio battuto e recinto ad uso sportivo, il giovine, vestito di bianco e con le scarpe di silenzio, esercitarsi con gli amici e le amiche, ai giuochi più snodati e smossi. Tutti erano vestiti di bianco, anche le ragazze, fatte della sola bellezza efebica del loro viso, sospese sempre sulla punta dei piedi e con le braccia frullanti come le stecche iridate delle ali della libellula, con qualche nota di rosso o di verde che pareva un riverbero della loro ebbrezza di vita. Nel silenzio montano del mattino d’inverno, i loro gridi risonavano metallici come vibrazioni lontane, di un mondo assolutamente separato da quello del marciapiedi opposto: eppure succhiavano il cuore del sor Pio come di notte i gridi spasimanti dei gatti in amore. Egli s’incocciava a non guardare che la scarpa calda del suo lavoro, squarciata e dolorante come una malata povera sotto i ferri di un chirurgo indifferente; ma vedeva lo stesso, in una luce di turchino esasperato, i giovani giocatori che si piegavano e si allungavano e correvano di continuo, col braccio teso e la racchetta sempre in aria in atto di offesa e di difesa; belli, felici e pazzi come angeli ai quali il Signore severo ha dato un’ora di piena libertà.

Poi vennero i tempi della decadenza. Un funerale di prima classe, con comete di garofani e cavalli che parevano generali negri di qualche tribù selvaggia, si partì dal villino, col padrone addormentato sotto una coltre di viole: qualche tempo dopo si videro tipi grifagni di uscieri battere alla porta, e le serve feline portarono dentro la buca del sor Pio le notizie del disastro.

- Tutto apparenza, era: tutto debito e anche truffa: adesso si vende tutto.

Eppure il signorino e la madre rimasero nel villino. Fu il tempo della sora Concetta, la quale ogni tanto usciva dalla casa dei padroni con un fagotto o una valigia in mano, ed alle maligne insinuazioni del ciabattino, un giorno, esasperata, rispose:

- Non sono io che porto via la roba, mannaggia a te ed ai mortacci tuoi; è la signora che la manda al fresco.

- Al Monte - egli tradusse, colpito. - Ma perché non vendono o non affittano il villino? Che se ne fanno, loro due soli, di tanto locale?

- Che ne so io? Perché non vai ad informarti tu di persona, se te ne preoccupi tanto?

Egli se ne preoccupava davvero: era una sua fissazione, e ci pensava anche alla notte, quando sognava di appiccicare una pezza alla scarpa del signorino in modo che non la si vedesse.

- I signori sono fatti così -. E ricordava di aver sentito dire che certi nobili spagnuoli, antichi, pur di conservare un fasto esterno, si contentavano di mangiare pane e cipolle.

Un giorno anche la sora Concetta sparì. Allora il sor Pio vide la signora del villino uscire spesso di casa, sempre vestita bene, composta ed elegante, con un mantello di seta o la pelliccia severa. Tornava, con passo elastico eppure stanco, come se le sue gambe fossero una giovane e l’altra vecchia, e pareva che quelle passeggiate la facessero ingrassare: il figlio invece stava sempre in casa; lo si vedeva spesso affacciarsi alla loggia con un libro in mano, come studiasse eternamente una lezione: qualche volta si esercitava giù, nel giardino, da solo, con palle di gomma che sbatteva al muro. Gli amici e le amiche erano spariti come falene quando il lume è spento.