Essi dormono ancora, e non so quale dei due svegliare per primo; mi dispiace rompere il loro sonno sacro. Entro nella camera di Fausto, attigua a quella del babbo: c’è già un odore di uomo, nella piccola camera tutta sottosopra. Egli ha buttato via i guanciali e giù le coperte, e dorme bocconi, lungo e nudo come un selvaggio sul margine del bosco. È bello e forte: la linea pura del dorso e delle gambe dritte ricorda quella delle statue greche: una lieve peluria copre già la sua pelle dorata, che anche nel sonno rabbrividisce di vita: le dita dei suoi piedi si agitano: forse egli corre, nel sogno, o gioca al pallone; io tuttavia esito a svegliarlo, anche perché so che il suo sonno è prepotente; vado quindi nella camera della piccola Sibilla, attigua alla mia.
Qui si sente il mio influsso diretto, poiché tutto è in ordine e dall’uscio aperto della mia camera entra già l’aria fresca e nuova. La bambina dorme fra le coperte rimboccate, ma anche lei ha tentato di venirne fuori come da una guaina troppo stretta, e sta supina, col viso di melagrana sommerso nella nuvola dei grandi capelli bruni, le belle braccia lunghe aperte, le mani offerte a raccogliere qualche cosa: pare che dopo aver nuotato in un’acqua tranquilla stia abbandonata sulle onde che la portano lontano nel mare della gioia.
Nel pomeriggio il tempo si schiarì: solo grandi sospiri di vento scuotevano di tanto in tanto la serenità dell’aria. Lo stesso avveniva dentro di me: ogni tanto andavo a guardare l’orologio a pendolo che mi rispondeva col suo battito impassibile ed era la sola cosa veramente viva di fronte a me.
Ero rimasta sola in casa. Giglina profittava della sua vacanza domenicale, il babbo e i ragazzi erano usciti, per ritornare all’ora in cui sarebbe arrivato lui.
Io mi aggiro sperduta nella casa, e avrei paura, se nei giardinetti attigui non sentissi il calpestìo sulla ghiaia, lo sbruffare degl’innaffiatori e gli stridi dei bambini, che mi rivelano l’esistenza d’innumerevoli vicini di casa. Questi vicini sono membri di numerose famiglie di piccoli impiegati; e i buoni padri profittano anch’essi della vacanza domenicale per sistemare economicamente i loro giardini. Sento che tutti guardano verso la nostra casa come io guardo l’orologio; per curiosità, per accorciare il tempo in attesa di qualche cosa di nuovo; ma io rispondo alla loro curiosità con l’impassibile battito del mio cuore rivolto a una cosa eterna che non può riguardarli. Non ho desiderio di conoscere nessuno, di farmi vedere da nessuno: anche gli oggetti della casa, adesso che sono al loro posto, non hanno più vita per me. Tutta la mia vita è in un punto solo, centrale; nell’attesa di lui.
Finalmente sono le cinque. Neppure l’orologio ha più vita per me, adesso, poiché l’ora è suonata. Adesso non esiste più che la mia attesa. Mi metto alla finestra e guardo la lontananza della strada come prima guardavo l’orologio: le persone che passano mi danno anch’esse l’impressione delle lancette che camminano una dietro l’altra e non si raggiungono mai.
Ecco mio padre coi ragazzi che tornano frettolosi per paura di aver fatto tardi: io ho rimorso di aver accorciato la loro passeggiata, ma il loro stesso affrettarsi mi dà un senso di malessere; un’ombra sorge dalla profondità dell’anima mia come un grido di civetta nel silenzio sereno della notte.
Nel vedermi sola alla finestra, i ragazzi si voltano a guardare se in fondo alla strada si vede la nota figura; e quando il loro viso si rivolge in qua mi sembra diverso, quasi invecchiato.
Giunto sotto la finestra, mio padre domanda:
- Non è ancora venuto?
Io accenno di no. Egli trae l’orologio, lo guarda, lo rintasca. Perché non dice nulla?
I ragazzi salgono di corsa su da me e con un salto si affacciano alla mia finestra: Fausto mi preme con tutto il peso del suo corpo e dice con crudeltà:
- Vedrai che quel maramaldo non torna più.
5
Io mi sento schiacciata, come sepolta da un terremoto: con tutte le mie forze cerco di liberarmi dal peso, e riesco a respingere il ragazzo; ma il senso di oppressione mi rimane, e non parlo perché la mia gola è chiusa, ostruita come una strada dove è accaduto un disastro.
D’un tratto Billa grida: - Eccolo, eccolo!
Il mondo s’illumina ancora: il disastro è stato solo un cattivo sogno; ma subito, come nei giorni sinistri d’inverno, il sole è di nuovo sepolto dalle nuvole.
Non era lui, era un passante che gli somigliava.
E la cosa più terribile era che il babbo non veniva su, non parlava: dopo qualche momento uscì di nuovo e andò sino in fondo alla strada; e anche il suo modo di camminare era diverso, o meglio era come nei primi giorni dopo la morte della mamma.
Egli va fino all’angolo della strada, guarda, poi svolta. Ed io ho un senso di terrore, come se anche lui sia sparito per sempre: un senso di terrore, di solitudine, di responsabilità mortale: mi sembra di essere rimasta sola coi miei fratellini in un luogo inumano, soli, abbandonati da tutti.
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