Ho voglia di gridare per richiamare il babbo; poi la speranza ch’egli si sia inoltrato nella strada per andare incontro all’altro rischiara di nuovo la mia angoscia. Ma egli riappare solo, rasentando il muro come voglia nascondersi a me: le tenebre mi riprendono; tuttavia ho un senso di riconoscenza religiosa per la riapparizione del babbo, e sento che veramente la radice della mia vita è in lui. Finché c’è lui noi siamo tutti ancora come i fiori e i frutti attaccati alla pianta: egli è la nostra speranza, la nostra forza di vivere.
Mi scuoto; penso alla sua pena e soffro doppiamente per la sua pena, ma sento che bisogna alleviarla nascondendo la mia com’egli tenta di nascondermi la sua.
Scendo giù da lui, seguìta dai ragazzi che presentendo anch’essi qualche cosa di fatale non parlano più ed hanno gli occhi pieni di curiosità e di spavento. Il babbo sta seduto accanto alla finestra del salottino da pranzo e legge il giornale: ha gli occhiali e sembra calmissimo, troppo calmo veramente.
Poiché io non riesco a parlare egli solleva gli occhi di sopra le lenti che tiene un po’ giù sul naso, e domanda:
- A che ora ti aveva detto che veniva?
- Non ha precisato l’ora, ma io credevo che venisse come sempre alle cinque.
- Può darsi che venga più tardi; sono appena le cinque e tre quarti - egli osserva, e si rimette a leggere il giornale.
Basta il suono della sua voce per riaccendere la mia speranza; però c’è qualche cosa in aria che toglie il respiro.
Anche i ragazzi si ritirano, si nascondono come gli animali all’avanzarsi di un’eclisse di sole; io vado in cucina, tento di fare qualche cosa, metto su l’acqua a bollire per cuocere i fagiuolini già ripuliti da Giglina; ma ho un senso di nausea: mi pare che mai più il cibo possa entrare nella mia bocca.
Dopo un sospiro, la mia amica seguitò a raccontare.
Poi torno su, ricomincio ad aggirarmi nelle camere e sento di essere come un tossico che serpeggia nel corpo di un malato: la quiete della casa è avvelenata dalla mia inquietudine.
Le ore passano con me, sinistre compagne della mia pena; sento di nuovo i vicini di casa ronzare come un popolo d’insetti felici sotto il fogliame primaverile; ricevono visite, ridono, prendono il gelato: i bambini schiamazzano. Li invidio e li odio. Mi pare che loro tutti si beffino della mia angoscia, vendicandosi della mia prima indifferenza verso la loro semplice felicità.
Giglina è tornata e apparecchia la tavola: ha scambiato poche parole col padrone e non fa osservazioni; ma d’un tratto me la vedo comparire davanti, lunga, mortificata, ed ho l’impressione che i suoi capelli siano diventati bianchi.
Mi chiama per il pranzo, con voce sommessa, come se nella casa ci sia un morto.
Un impeto di orgoglio mi solleva.
- Vengo subito - grido, e mi slancio giù per le scale come fanno i ragazzi, di volo, aggrappata alla ringhiera.
6
E quando tutti siamo riuniti a tavola, il coraggio di parlare, di combattere la mia e l’altrui inquietudine, mi accende come un guerriero davanti alla battaglia.
- Non capisco perché non è venuto, - dico con una voce che non mi sembra la mia,
- a meno che non sia malato o non gli sia capitata una disgrazia.
- Dio non voglia. Del resto, se era malato avrebbe mandato ad avvertire.
- E se gli è capitata una disgrazia? - io insisto. - Ricorda quel tuo collega che la scorsa domenica è andato sotto un’automobile.
- Era vecchio e non ci sentiva. Macché disgrazia! Avrà avuto qualche impegno; forse l’affare che doveva concludere sabato l’avrà rimandato ad oggi.
- No, no. Allora sarebbe venuto ieri, o avrebbe mandato un espresso. Io credo invece che gli sia accaduto qualche cosa di triste, oppure…
- Oppure?
- Che non voglia tornare più.
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