Anche il marito della donna ed i figli grandicelli lavorano nei caseifici sottostanti; mentre i marmocchi ultimi, scalzi, terrosi e selvatici, giocano fra le ginestre e i canneti sotto il ciglione.

Fu uno di questi bambini, con la testa grossa come quella di don Felice, ma bello rosso e con due occhi di stella, che primo si accorse del forestiero e salì a darne l’annunzio alla madre.

Ella si affacciò all’uscio fumoso della cucina, che comunicava con la tettoia, riparate dalla quale alcune tavole unte e vinose aspettavano gli avventori; e nel riconoscere l’antico padrone si mise a ridere: ma di un riso silenzioso che solo scopriva i grandi denti di madreperla e dorava il suo viso di beduina.

Anche l’uomo, nel rivederla, piccola, rigida e squadrata come un idolo di legno, con tutto quel cordame di trecce fuligginose che pareva le imprigionasse la testa e non le permettesse di muovere i lineamenti neppure sotto la scossa del riso, si sentì come trasportato nel tempo: le ombre davanti ai suoi occhi si diradarono, ed egli si rivide giovane, poderoso, con la vita al guinzaglio.

- Oh, Lisendra, come andiamo?

- Oh, don Felis, come mai qui?

- Eh, al solito, per affari.

- Come sta donna Mariangela?

- Benone: sembra una ragazza di venti anni e lavora come un servo contadino.

- Dio la conservi cento anni.

- Dio lo voglia: e tuo marito come va?

- Lavora anche lui. È giù coi ragazzi al caseificio. Adesso c’è anche una grande vaccheria, quaggiù, vede, quel caseggiato bianco che sembra una caserma? Lavoro, quindi, ce n’è per tutti. Si metta a sedere, don Felis; che cosa le posso offrire?

- Niente, per adesso: solo vorrei una cosa da te, Lisendra sempre bella. Non hai modo di alloggiarmi? Non voglio andare all’albergo, perché gli alberghi a me danno una melanconia mortale. Oh, selvatici siamo e selvatici resteremo.

La donna rise ancora, con quel suo caratteristico riso quasi di belva, intelligente e barbaro assieme: indovinava che sotto le parole del suo antico padrone si nascondeva un mistero.

- Alloggio? L’avrei: ma non è degno di lei: è alloggio per carrettieri.

- Tutti siamo carrettieri, nella vita, direbbe mia madre: si va, si va, con un carico più o meno pesante e di valore, e si arriva alla stessa stazione. Oh, fammi vedere subito quest’alloggio.

Era una camera molto rustica, al pian terreno, dietro la casa, col pavimento sterrato e improntato dalle zampe delle galline e dei piccioni: il letto odorava di stoppia, e il davanzale della finestra, con su una catinella di ferro smaltato, serviva da lavabo.

Eppure piacque a don Felice: forse perché la porta dava su un breve spiazzo erboso e su questo dominava, solitaria, una tavola: seduti davanti a questa ci si poteva credere in piena campagna. L’avvallamento, sotto, era infatti gonfio di canneti, di rovi e di sambuchi, con sfondi di prati di un verde di maiolica; 56

e in lontananza la trina celeste dei monti svaporanti nell’oltremare dell’orizzonte.

Il giorno stesso don Felis andò da un celebre specialista. Freddamente, come si parla ad uno sconosciuto, ma con parole che attanagliavano la verità meglio che quelle di un amico o di un confessore, l’uomo della scienza interrogò il nuovo cliente.

Erano quasi al buio, e solo la sagoma barbuta del dottore risaltava in un triangolo di luce violetta: ma fossero pure stati nel grande sole del campo di fave di Lisendra, don Felis avrebbe risposto lo stesso, ripagando con la sua, l’indifferenza dell’altro.

- Divertito mi sono, certamente, come del resto ci si può divertire in paesi piccoli come il mio. Ho anche studiato, già, ma dopo la morte di mio padre…

- Mi parli di suo padre.

Su questo punto don Felis non intendeva dare ragguagli. Aggrottò le fiere sopracciglia e rispose secco:

- Mio padre era un galantuomo. Credo non abbia conosciuto altra donna che mia madre. È morto giovane, di carbonchio mal curato. Era un uomo ricco e rispettato.