Poi riprese in tono minore:

- Facevo la seconda liceale quando fui costretto a tornare a casa perché, unico maschio della famiglia, dovevo aiutare mia madre nell’azienda domestica. O, per dire la verità, troncai gli studi perché non avevo voglia di proseguirli. E

allora cosa si fa? Si sorvegliano le campagne, si comandano i servi, si lavora anche noi; e l’unico svago sono le donne. Troppo mi sono piaciute, le donne, tanto più che venivano loro da me. Si abusa, e allora viene il momento della resa dei conti.

Pausa. Ce n’era già forse abbastanza, per le conclusioni dello specialista: ma l’uomo che si confessava, di natura alquanto crudele verso gli altri e verso sé stesso, riprese inesorabile:

- Poi non bastano le donne: gli affari vanno bene, si fa qualche viaggio, ci si diverte e strapazza a modo nostro in città; poi si ritorna a casa e per ammazzare la noia, o meglio il vuoto che comincia a farsi dentro di noi, si gioca. Si piglia gusto anche al gioco: si perde, si vince, si sciupano le notti e la salute. Allora ci si arrabbia, si attacca lite con tutti; viene l’insonnia, la tristezza, la disperazione. Si è, infine, come una ruota uscita dal pernio.

Soddisfatto per la sincerità sobriamente colorita di filosofia e quasi anche di scienza del caratteristico cliente, lo specialista domandò:

- Perché non ha preso moglie?

- Chi gliel’ha detto, che non l’ho presa? Già, l’ho presa, e forse è stata una delle cause del male. Donna santa, venerabile, appunto per la sua santità è stata l’unica donna che non ha corrisposto ai miei bisogni fisici e morali.

Fredda e sterile ha vissuto con me venti anni come una statua di ghiaccio, tutta di Dio, mentre io appartenevo sempre più al diavolo. Lo scorso anno è morta, senza accorgersene, come non si era mai accorta di vivere. Eppure la sua scomparsa mi ha dato il tracollo. Rimorsi, scrupoli, superstizioni: sarà così, ma io, per stordirmi, ho cominciato anche a bere.

Qui lo specialista fece un gesto significativo, come per fermare il disgraziato nella china delle rivelazioni: don Felis però s’era già fermato, sollevando anzi la testa pennuta e scuotendola come l’aquila che si sveglia: poiché il resto dei suoi peccati riguardava lui solo.

Cominciò la cura costosa e dolorosa: iniezioni alla tempia, medicine nauseanti, regime di vita monacale che si succhiava il corpo e l’anima del paziente peggio della malattia stessa.

E questa si aggravava ogni giorno di più. Verso sera don Felis tornava al suo rustico rifugio con l’impressione di aver errato durante la giornata in un labirinto di pietre, fra nembi di polvere i cui residui gli bruciavano e pungevano gli occhi: tornava stanco e avvilito, con un sinistro proposito di morte nel cuore: ma arrivato alla casa di Lisendra provava un senso di refrigerio. Col cadere del sole le ombre dei suoi occhi si diradavano, ed egli rivedeva ancora le linee della realtà.

57

Era un’umile realtà, che però lo richiamava, così accanto alla città rombante come una grande macchina di vita, alla pace primitiva del suo paese. Ecco, i bambini giocano ancora con le fave, come lui nella sua prima infanzia: le lunghe e grosse fave a coppia, panciute e cornute, sono i buoi aggiogati che vanno al pascolo o tirano una crocetta di canna che rappresenta l’aratro: con le fave si prepara il desinare, si fabbricano anelli e catene: e uno dei bambini accompagna il gioco degli altri col filo di musica che sgorga da un flauto di avena, di tanto in tanto interrompendo l’opera d’arte per l’esercizio bellico di una fionda di salice che coi suoi proiettili di sasso sbaraglia l’esercito dei gatti che dai dintorni accorrono all’osteria.

Allora Lisendra, con un recipiente in mano, si affaccia alla porta della cucina, e manda via dalla tettoia i bambini per riguardo dei clienti che arrivano.

I clienti che arrivano hanno, del resto, poche pretese: rozzi e bonari, forse anch’essi in origine prepotenti e istintivi, sono adesso ammansiti dal lungo lavoro e dalla vita dura. Sono carrettieri rossi e calvi, che abbandonano per un quarto d’ora, davanti all’osteria campestre, i loro lunghi veicoli turchini dal mantice dipinto e istoriato, ed i cavalli con le nappe rosse alle orecchie come pendenti di corallo; stanchi muratori che fabbricano le case nuove in mezzo ai sambuchi; e infine i casari, per lo più giovani, del colore incerto degli emigranti che perdono il carattere natio senza acquistare quello del nuovo paese.

Alcuni parlavano ancora il dialetto di don Felis, ed egli li ascoltava con un senso di nostalgia, come definitivamente esulato anche lui dalla sua terra, alla quale non sapeva se la vita gli avrebbe concesso di ritornare; se poi essi cominciavano a canticchiare o se uno di loro suonava la fisarmonica, egli cadeva in una specie di sogno.

Mai aveva provato una cosa simile; e questo ripiegarsi sul vuoto del suo passato lo riconduceva quasi nella profondità del passato stesso, all’illusione di potersi sollevare e ricominciare una nuova vita.

I casari erano gli ultimi ad andarsene. Allora Lisendra dava da mangiare alla sua famiglia raccolta intorno alla tavola della cucina, e preparava la cena per don Felis.