— Presto mi batterete — gli diceva talora Faber, — e, essendo stato il vostro maestro, sarà il più grande omaggio che possiate farmi.
Porcaro si mostrava nondimeno critico verso il “re dei giochi”. Un giorno disse a Faber: — Vi sforzate di sostituire gli scacchi al gioco dei dadi nella cittadella perché, secondo voi, ai dadi conta soltanto la fortuna, mentre negli scacchi vale la sola intelligenza. Ma è falso che la fortuna non abbia parte alcuna negli scacchi. Ce l’ha, e fin da prima che inizi la partita. Eh, sì, il verme è nel frutto, checché ne diciate!
Faber, sapendo dove voleva arrivare Porcaro, si fingeva stupito.
— Ma sì, ma sì — insisteva Porcaro. — Prima di giocare, si tira a sorte per attribuire a uno dei due giocatori i pezzi bianchi, e i neri all’altro. E sono i bianchi ad aprire la partita. È un vantaggio indiscutibile e, se si affrontano due giocatori di pari forza, immancabilmente la vittoria arriderà a colui al quale la sorte ha attribuito i bianchi.
A ciò Faber rispose dapprima che l’ipotesi di due giocatori di pari forza era del tutto chimerica nella pratica.
— Quanto al supposto vantaggio che darebbe l’iniziativa della prima mossa, è oppugnabile, e mi faccio forte di dimostrare che i neri possono sempre avere il sopravvento. Quando due eserciti si scontrano, osereste affermare che la vittoria arride necessariamente a quello che attacca per primo?
Ma Porcaro non si lasciava convincere. Rammentò una leggenda sull’origine degli scacchi che, a suo avviso, dimostrava la presenza del maraviglioso, addirittura del diabolico in quel gioco. Si racconta che il califfo di Isfahan si annoiasse. Promise che, a chi gli avesse portato un gioco capace di distrarlo, avrebbe dato qualunque ricompensa, quale che fosse. Fu così che furono inventati la briscola, il misirizzi, il croquet, il domino, il gioco dell’oca. Ma ogni volta il califfo scuoteva il capo facendo 13
il muso lungo. Fino al giorno in cui uno sconosciuto venuto da un paese lontano gli portò una scacchiera con i trentadue pezzi e lo mise al corrente delle regole del gioco.
L’entusiasmo del califfo faceva piacere a vedersi. Chiese subito allo sconosciuto cosa desiderava come ricompensa. Voleva il governo di una provincia, una principessa della corte in sposa, il suo peso in oro e pietre preziose?
— No — rispose l’uomo. — Voglio del riso. Una certa quantità di riso.
Il califfo si stupì di tanta moderazione. Ma qual era la quantità di riso che richiedeva?
— Quella indicata dalla scacchiera stessa — rispose lo sconosciuto. — Ovvero un chicco nella prima casella, due nella seconda, quattro nella terza, otto nella quarta, e così via, raddoppiando ogni volta fino alla sessantaquattresima casella.
Il califfo ordinò subito ai suoi contabili di calcolare il numero di chicchi così totalizzato. Grande fu la sua sorpresa quando quegli esperti chiesero non meno di otto giorni per effettuare il calcolo. E fu ancora più grande quando seppe che i chicchi così ottenuti equivalevano alla raccolta totale del suo regno per la durata di un secolo.
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