Faber aveva ascoltato questa leggenda con le sopracciglia aggrottate, sospettando che si sarebbe conclusa con qualche trappola degna di Porcaro.
— E qual è, dunque, la cifra esatta? — domandò.
Il frate levò le braccia al cielo. Non era un matematico, e Faber sarebbe stato ben più bravo di lui nel determinarla.
— Ma vedete — aggiunse, — questa storia somiglia dannatamente alla teoria dell’atavismo di cui parlavamo poc’anzi. Infatti il numero dei nostri genitori raddoppia a ogni generazione, proprio come quello dei chicchi di riso su ogni casella.
E, contando cinque generazioni per secolo, le sessantaquattro caselle della scacchiera corrisponderebbero a meno di tredici secoli, che non è davvero una durata vertiginosa.
Faber si mise al lavoro quella sera stessa. Calcolò per buona parte della notte.
Il cielo schiariva a oriente quando arrivò al numero formidabile di 18.446.744.073.709.551.615.
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4.
Una strana partita a scacchi
Sarebbe stato sicuramente meglio per il morale degli assediati dover respingere l’assalto degli inglesi o meglio ancora tentare delle sortite per distruggere la loro opera di avvicinamento, gallerie sotterranee, circonvallazioni, trincee o carreggiate destinate alle torri d’assalto. Ma gli inglesi non facevano niente, e i francesi sprofondavano in una inoperosità deprimente. Il razionamento dei viveri era gravemente compromesso dai traffici illeciti e dalla corruzione. Si erano scoperti gravi furti nei granai e nelle cantine dov’erano ammassati tutti i viveri della città. Si era fustigato in pubblico un intendente colpevole di malversazione. Ma Faber tremava all’idea che un giorno o l’altro anche il suo stesso figliolo, quell’insopportabile Lucio, potesse essere implicato in qualche brutta faccenda.
Come avrebbe conciliato, allora, il suo amore paterno con la responsabilità morale di fronte al conte e alla popolazione?
Quella popolazione si stava stancando dell’assedio e propendeva per una resa pura e semplice agli inglesi. Le sole cose che ancora la frenavano erano le storie che trapelavano, non si sa bene come, sulle atrocità commesse dalla soldataglia nei cascinali isolati e nei gruppi di casolari vicini.
L’ardente desiderio di vedere la fine dell’assedio si era concretato in un oggetto bislacco, frutto di un’usanza che si perdeva nella notte dei tempi: la corona ossidionale. Era un serto vegetale che ricordava la corona di spine del Cristo ed era simbolo dello stato miserevole degli assediati. Secondo la tradizione, era composta di male erbe che crescevano nei cortili e sui bastioni cittadini. Faber l’aveva scoperta ai piedi di una statua di san Giorgio nella cappella del castello. Riconobbe fra i gambi rozzamente intrecciati, oltre a rovi e ortiche, i fiori austeri della borragine, piante di sassifraga – ovvero “spaccasasso” perché demolisce i tetti e i pavimenti delle terrazze
– le foglie scabre e pelose del giusquiamo – detto anche “erba dei ruderi” – e infine un piede di elleboro nero le cui “rose di Natale” avrebbero forse, di lì a qualche settimana, dato un tocco di dolcezza a quella composizione arida fino allo scherno.
La corona ossidionale aspettava in ogni città cinta d’assedio la festa della liberazione.
Doveva ricompensare colui o colei che avesse più contribuito alla cacciata dell’assediante.
Faber trovò per contro grande conforto nel ritorno di uno dei messi da lui sguinzagliati in alcune città famose per le loro armerie allo scopo di saperne di più su certe bocche da fuoco leggere inventate di recente. L’uomo portava con sé dalla città di Torino un mastro cannoniere e, insieme, recavano, nascosto in un rotolo di tessuto, un oggetto bislungo che doveva pesare quanto un bambino di cinque anni.
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Era una delle prime colubrine, cannoni in miniatura di una maneggevolezza fino allora sconosciuta, un “cannone a mano” per il cui uso bastavano due uomini.
L’indomani stesso, quel gioiello dell’armamento piemontese veniva presentato ai membri della cellula d’assedio.
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