Il mastro cannoniere spiegò che, oltre alla leggerezza, la colubrina offriva il vantaggio rivoluzionario di venire caricata non dalla parte posteriore (la culatta) – sistema che fa perdere un’enorme quantità di gas – ma dalla bocca. Il problema dell’accensione era risolto grazie a una “luce”, piccolo orifizio da cui usciva una miccia o nel quale s’introduceva un ferro rovente. Il cannone poteva essere fissato a un vomero di legno che poggiava sulla spalla del tiratore, ma un complesso di staffe permetteva anche di collocare l’arma fra un merlo e l’altro. I proietti di piombo erano grossi quanto un pollice e avevano forma di cilindro appuntito a un’estremità.

Ciò che più entusiasmava Faber erano la precisione e la rapidità di tiro assicurate dal mastro piemontese. Si era dunque in possesso della risposta ideale al terribile pericolo che le grosse bombarde facevano correre alla città assediata. Il grande scudo di legno che metteva i serventi della bombarda al riparo dalle frecce degli archi e delle balestre sarebbe stato trapassato e demolito dai proietti della colubrina ancor prima che la bombarda potesse sparare un solo colpo.

Faber non si stancava di accarezzare e di soppesare l’arma elegante e liscia, costruita in ferro forgiato. Notò infine un marchio di fabbrica: una minuscola scacchiera di sessantaquattro caselle incisa sul metallo. Il riferimento al gioco non soggetto al caso su quell’arma di precisione lo colmò di contentezza.

Quella stessa sera, la colubrina venne fissata mediante le staffe sui merli, di fronte al campo inglese di cui si scorgevano le cime appuntite delle tende.

Quel mercoledì, Faber si presentò all’ingresso del campo inglese, accompagnato da Orlando e da un servo che trasportavano lo specchio avvolto in un telo. Erano seguiti da un quarto uomo.

Era don Porcaro, nominato per l’occasione arbitro dell’incontro. Non potendo fidarsi degli inglesi, trasportava in un bauletto piatto la scacchiera e i trentadue pezzi fabbricati su indicazione di Faber da un ebanista di Cléricourt.

I quattro uomini vennero fatti entrare in una prima tenda militare che sembrava un’anticamera, e subito dopo un arciere avvertì Faber che il comandante lo attendeva nella sua stewhouse.

Faber lo seguì senza capire e fu sorpreso nel trovarsi di punto in bianco avvolto da vapori attraversati da ruggiti di benvenuto. Era una vera e propria stanza per bagni di vapore, con un forno in mattoni refrattari e un’enorme tinozza fumante. Avvicinatosi, Faber distinse Exmoor che ci sguazzava dentro, nudo come un dio Sileno.

— Torno dalla caccia — disse. — Ho ucciso un cinghiale e sei lepri. Non conosco niente di meglio del vapore per rinfrancarsi. Unitevi immantinente a me!

Faber era così sorpreso che si lasciò spogliare da un garzone infagottato in un immenso camiciotto, e si ritrovò di lì a poco seduto nel tino dove l’acqua, sulle prime, gli parve di un calore poco meno che insopportabile.

16

— Soffrite, vero? — gli domandò, ilare, il suo gigantesco compagno. — È una questione di nobiltà. Il mio signore Sir John Falstaff fa il bagno a temperature che lui solo riesce a tollerare. Che uomo ammirevole! Non potrete davvero lamentarvi del calore della mia accoglienza, ah, ah, ah! Capite ora perché il nostro buon re Enrico IV

ha creato l’Ordine del Bagno? Rilassatevi. Ora ci porteranno da mangiare e da bere su dei vassoi galleggianti.

Faber, stordito dall’afa, non ascoltava quel fiotto di parole che si perdevano nello sciabordio dell’acqua e nel ronzio del fuoco. D’un tratto, non vide più nessuno davanti a sé.