I buoni-viveri venivano distribuiti ogni dieci giorni. Ora, accadde che, nelle prime settimane, alcuni gruppi o famiglie se la spassassero un mondo bevendo e festeggiando per notti intere dietro le porte chiuse, mentre altri sembravano ridotti alla fame, al punto che i bambini mendicavano il pane nei vicoli della cittadella. Faber, sulle prime, pensò che gli uni avessero venduto a peso d’oro le loro razioni agli altri.
Non sarebbe stato un gran male giacché in tal caso avrebbero percepito, per così dire, il loro “salario di fame”. Ahimè, la verità era peggiore. Bisognò arrendersi all’evidenza: la passione del gioco si era diffusa nella popolazione, e pochi erano coloro che ne restavano immuni. Si giocava a tutte le ore e in ogni luogo, ma soprattutto dopo il coprifuoco in alcuni locali trasformati in bische, dalle cui imposte sbarrate usciva il ruggito degli alterchi e delle risse.
Messo al corrente di tali disordini, il conte pensò di prendere dei provvedimenti di polizia: incursioni armate nelle bische, confisca dei dadi e delle puntate, punizione dei giocatori. Faber lo pregò di desistere. La sola repressione non avrebbe guarito il male di cui soffriva la popolazione. Per sopperire al bisogno di rischio cui risponde la passione del gioco, era preferibile sostituire l’ignoranza e il culto della sorte con la conoscenza. La guarigione attraverso lo spirito: Faber non conosceva altra via. Che fare, dunque, nel caso in questione? Tentare di sostituire ai dadi, gioco di pura fortuna, un altro gioco, di pura intelligenza, che non lasciasse niente al caso. Infatti se le carte, per esempio, si basano su una padronanza intelligente delle regole del gioco, ciò non toglie che ogni partita abbia inizio con una distribuzione che, invece, sottostà al puro caso. Faber raccomandava che si diffondesse in città il solo gioco al mondo non soggetto al caso, quello degli scacchi, che egli aveva appreso durante il soggiorno veneziano e che era stato portato in quella città – si diceva – da Marco Polo al ritorno dalla Cina. E Faber posò sul tavolo della cellula d’assedio una scacchiera con i trentadue pezzi e volle iniziare seduta stante i suoi compagni a quel re dei giochi che è anche il gioco dei re. Tutti vi si applicarono con ardore. Non potevano non apprezzare il sottile rapporto che esiste fra le regole degli scacchi e quelle della vita di corte. Che le torri si spostassero orizzontalmente e verticalmente travolgendo tutto al loro passaggio. Che i cavalli saltassero tutti gli ostacoli. Che gli alfieri corressero per vie oblique. Che la regina fosse il pezzo più potente, e il re il più fragile. Ecco dei dati che colmavano di beffarda allegria quegli assidui delle corti e delle loro vicissitudini. Si decise di mettere in fabbricazione centinaia di scacchiere con i relativi pezzi al gran completo e di costringere gli abitanti di Cléricourt a imparare quel nuovo gioco.
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3.
La sfida di Exmoor
Durante quei primi mesi d’assedio consacrati all’organizzazione interna della vita a Cléricourt, Faber non aveva avuto molte occasioni di curarsi di suo figlio. Lo vedeva di rado – soltanto una volta al giorno – sempre intento a correre verso misteriosi appuntamenti e assorbito da compiti enigmatici. Il bambino doveva in teoria recarsi quotidianamente al priorato per prendere dai frati di don Porcaro – con una ventina di altri monellacci – lezioni di latino, teologia, storia e francese. Faber fingeva di credere che da quel lato andasse tutto bene, quando un incidente piuttosto grave lo costrinse a occuparsi un po’ più da presso di Lucio. Una mattina lo avvertirono che era stato arrestato dagli arcieri di guardia mentre tornava da una sortita con due suoi coetanei.
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