Sbucarono così a meno di un quarto d’ora dal borgo di Boisrenard.
9
La locanda dormiva nella penombra, e a fatica Faber e il suo compagno riuscirono a farsi servire un bicchiere. Il banconiere, Sylvain, fece capire loro che da un bel pezzo soltanto gli inglesi frequentavano la locanda e soltanto dopo il coprifuoco al campo. I due decisero di aspettare. Era buio fatto quando si presentarono i primi soldati. Erano due cavalieri borgognoni, stremati da una giornata di cammino, che si congiungevano con lo stato maggiore di Exmoor. Sembravano più preoccupati dei cavalli che di loro stessi e, prima di mettersi a tavola, sorvegliarono le cure che venivano prodigate ai loro animali.
L’oste li intrattenne dicendo che avevano la possibilità di veder arrivare il comandante inglese prima di mezzanotte. Il più giovane, esausto, si era addormentato sui gomiti quando un gran baccano segnalò l’arrivo di un nutrito gruppo. Subito Sylvain accese tutte le candele del salone e gettò una fascina nel caminetto. Ci furono urla, risate, bestemmie, scalpitii di destrieri.
Faber si domandava se Exmoor sarebbe arrivato a cavallo o in carrozza. Fu sorpreso nel vederlo scendere a fatica da una gigantesca portantina le cui stanghe erano attaccate a due belle giumente bianche. Si diresse d’autorità verso il tavolone della sala.
Era come Faber l’aveva immaginato, grottesco e magnifico, calzato di stivali a cosciale e con una parrucca bionda e riccia in capo. Faber notò che parlava con i compagni un francese alterato – l’anglonormanno – ma comprensibile. Fu disgustato, di contro, dalla bevanda che l’oste si affrettò a servire in grossi boccali di terracotta, un miscuglio d’orzo e di luppolo arrivato di recente dalla Germania sotto il nome di
“Hoppe Hopenbier”. Quando si parla francese, si beve vino, che diavolo!
Appena la soldataglia ebbe preso posto, apparvero dal nulla dei bossoli da dadi, e tutti si lanciarono ruggendo in un gioco infernale.
Faber osservava la tavolata con passione vigile. Così, dunque, quei dadi maledetti che insidiavano l’ordine e la concordia della cittadella assediata compivano gli stessi danni anche nel campo degli assedianti. E per la stessa ragione, evidentemente: il tedio, il bisogno di insufflare in un’atmosfera irrespirabile degli sbuffi di rischi artificiali. D’un tratto gli sembrava che assediati e assedianti, da una parte e dall’altra delle mura di Cléricourt, si somigliassero, come se quelle muraglie fossero soltanto un immenso specchio che rinviava a ogni campo la sua stessa immagine. E pensò con disgusto alla grande sorcière veneziana che splendeva cupamente nel fondo della sua stanza.
La locanda si riempiva, alcuni uomini andarono a prender posto al tavolino occupato da Faber e da Orlando. Si avviò la conversazione. Faber poneva rare domande e ascoltava attentamente le risposte e i commenti che ne seguivano. Voleva a ogni costo farsi un’idea più precisa possibile sulle condizioni degli assedianti. Gli parvero, ancora una volta, stranamente assimilabili a quelle degli assediati. Infatti, se gli assediati sono in qualche modo prigionieri degli assedianti, questi ultimi dal canto loro si ritrovano trattenuti e immobilizzati dagli assediati. È vero che gli assedianti godono del contatto con il paese circostante da cui gli assediati sono tagliati fuori, ma simile vantaggio si paga con un’organizzazione più blanda, con la minaccia di diserzioni o infiltrazioni, con la tentazione costante di togliere l’assedio, minaccia e tentazione che esistono sicuramente sotto altra forma anche nel campo degli assediati, 10
ma in misura assai minore.
1 comment