Non aveva dunque che da provvedere al pranzo e all’affitto, dal momento che gli altri pensavano a vestirla e a darle molte di quelle provviste utili per la casa, come lo zucchero, il caffè, il vino ecc. Nel 1837, dopo ventisette anni di vita, per metà pagata dalla famiglia Hulot e dallo zio Fischer, la cugina Bette, rassegnata alla sua condizione, si lasciava trattare alla buona: era lei stessa che rifiutava di andare alle cene importanti, preferendo l’intimità che le permetteva di valorizzarsi ed evitare qualche sofferenza del suo amor proprio. Dappertutto, in casa del generale Hulot, di Crevel, del giovane Hulot, di Rivet, successore dei Pons, col quale si era riconciliata e che le faceva festa, dalla baronessa, sembrava fosse di casa.
Dappertutto, infine, sapeva farsi benvolere dai domestici dando loro di tanto in tanto delle piccole mance, parlando sempre con loro per qualche istante prima di entrare in salotto. La franca familiarità, con cui si poneva al livello dei domestici, le conciliava la loro benevolenza di subalterni, essenziale ai parassiti. «È una buona e brava ragazza!» tutti dicevano di lei. La sua compiacenza, senza limiti quando non la si esigeva, era del resto, come la sua finta bonomia, una necessità della sua posizione. Aveva finito per comprendere la vita vedendosi alla mercè di tutti; e, volendo piacere a tutti, rideva con i giovani ai quali piaceva per un certo modo di adulare che li seduce sempre, indovinava e prendeva a cuore i loro desideri, si rendeva loro interprete; appariva loro una buona confidente, poiché non aveva il diritto di rimproverarli. La sua discrezione assoluta le meritava la fiducia delle persone di età matura, perché possedeva, come Ninon, delle qualità maschili. In generale le confidenze vanno più verso il basso che verso l’alto. Negli affari segreti ci si serve più degli inferiori che dei superiori; essi diventano quindi i complici dei nostri più riposti pensieri, sono a parte delle nostre deliberazioni: Richelieu si considerò un uomo arrivato quando ebbe il diritto di assistere al Consiglio.
Credevano che quella povera ragazza dipendesse talmente da tutti, da sembrare condannata a un mutismo assoluto. La cugina si soprannominava lei stessa il confessionale della famiglia. Solo la baronessa, causa i maltrattamenti subiti durante l’infanzia dalla cugina più forte di lei, benché più giovane, conservava una specie di diffidenza. Poi, per pudore, ella non avrebbe confidato che a Dio i suoi dispiaceri familiari.
A questo punto, forse è necessario fare osservare che la casa della baronessa conservava tutto il suo splendore agli occhi della cugina Bette, la quale non era colpita, come il commerciante di profumi arricchito, dall’indigenza scritta sulle poltrone consumate, sui tendaggi anneriti e sulla seta lisa. Accade per i mobili, con i quali si vive, come per noi stessi. Esaminandosi tutti i giorni, si finisce, come il barone, per credersi poco cambiati, giovani, mentre gli altri vedono sulla nostra testa una capigliatura che sfuma nel bianco, degli accenti circonflessi sulla nostra fronte, delle prominenze di grasso nell’addome. Quell’appartamento, sempre illuminato per la cugina Bette dai fuochi del Bengala delle vittorie imperiali, aveva ancora il suo splendore. Col tempo, la cugina Bette aveva preso delle manie da zitella alquanto singolari. Così, per esempio, voleva, invece di obbedire alla moda, che la moda si conformasse alle sue abitudini e si piegasse ai suoi capricci sempre «superati». Se la baronessa le regalava un bel cappello nuovo, qualche vestito tagliato secondo il gusto del momento, subito la cugina Bette rimaneggiava, a casa sua e a modo suo, ogni cosa, e la sciupava facendone un vestito secondo la moda imperiale o gli antichi costumi lorenesi. Il cappello da trenta franchi diventava un cencio e il vestito uno straccio. Bette era, a questo riguardo, di una testardaggine da mulo. Voleva piacere solo a se stessa e si credeva bella così, mentre questo adattamento, armonioso solo in quanto la rendeva zitella dalla testa ai piedi, la faceva apparire così ridicola che, con tutta la buona volontà, nessuno avrebbe potuto ammetterla in casa propria nei giorni di gala.
Quel carattere restio, capriccioso, indipendente, l’inesplicabile selvatichezza della giovane, alla quale il barone per ben quattro volte aveva trovato un partito (un impiegato della sua amministrazione, un maggiore, un appaltatore di viveri, un capitano in pensione), e che aveva rifiutato un commerciante di passamaneria, divenuto poi ricco, le valse il soprannome di Capra che il barone le dava ridendo. Ma questo soprannome non rispondeva che alle bizzarrie esteriori, a quelle variazioni che presentiamo tutti, gli uni agli altri, nei rapporti sociali. Quella giovane che, a una attenta osservazione, avrebbe rivelato il lato feroce della classe contadina, era sempre la bambina che voleva strappare il naso della cugina, e che forse, se non fosse diventata ragionevole, l’avrebbe uccisa in un accesso di gelosia. Solo grazie alla conoscenza delle leggi e del mondo, ella riusciva a domare l’irruenza naturale, con la quale la gente di campagna, nonché i selvaggi, passano dal sentimento all’azione. In questo forse consiste tutta la differenza che separa il selvaggio dall’uomo civile.
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