IV • COMMOZIONE IMPROVVISA DEL PROFUMIERE
«Ebbene, signora, è forse a cinquantadue anni che si ritrova un simile tesoro? A questa età l’amore costa trentaduemila franchi l’anno; ho saputo la cifra da vostro marito, e io amo troppo Célestine per rovinarla. Quando vi ho vista, alla prima serata che ci avete offerto, non sono riuscito a capire perché quello scellerato di Hulot se la facesse con una Jenny Cadine… Avevate l’aria di una imperatrice… Voi non avete trent’anni, signora,» riprese, «mi sembrate giovane, siete bella. Parola d’onore, quel giorno sono stato colpito profondamente, mi dicevo: ‹Se non avessi la mia Josépha, dato che papà Hulot trascura sua moglie, a me andrebbe come un guanto.› Ah, scusate, è un’espressione della mia professione d’un tempo. Di tanto in tanto, riappare il profumiere, ed è proprio quello che mi impedisce di aspirare a essere deputato. Perciò, quando sono stato così vigliaccamente ingannato dal barone, poiché fra vecchi furfanti come noi le amanti dei nostri amici dovrebbero essere sacre, ho giurato a me stesso di prendergli la moglie. È un atto di giustizia. Il barone non avrebbe niente da ridire, e l’impunità ci è garantita. Mi avete messo alla porta come un cane rognoso alle prime parole con cui vi ho rivelato i miei sentimenti, ma col vostro comportamento avete raddoppiato il mio amore, la mia ostinazione se volete, e sarete mia.»
«E come?»
«Non lo so, ma sarà così. Vedete, signora, un imbecille di profumiere (a riposo!) che non ha che una idea in testa è più forte di un uomo d’ingegno che ne ha migliaia. Sono pazzo di voi e voi siete la mia vendetta! È come se io amassi due volte. Vi parlo a cuore aperto, da uomo risoluto. Così come voi mi dite: ‹Non sarò vostra›, io parlo freddamente con voi. Insomma, come si suol dire, gioco a carte scoperte. Sì, sarete mia, quando sarà il momento. Oh, anche se aveste cinquant’anni, sareste lo stesso la mia amante. E sarà così perché io mi aspetto tutto da vostro marito…»
La signora Hulot posò su quel borghese calcolatore uno sguardo reso così fisso dal terrore, che egli la credette impazzita e si fermò.
«L’avete voluto voi, mi avete coperto di disprezzo, mi avete sfidato, e io ho parlato!» disse provando il bisogno di giustificare la violenza delle sue ultime parole.
«Oh! mia figlia! mia figlia!» esclamò la baronessa con la voce di una moribonda.
«Ah! non capisco più nulla!» riprese Crevel. «Il giorno in cui Josépha mi è stata presa, ero come una tigre alla quale sono stati portati via i cuccioli… Insomma, ero come vedo voi in questo momento. Vostra figlia è per me il mezzo per avervi. Sì, ho fatto andare a monte il matrimonio di vostra figlia! e non la sposerete senza il mio aiuto! Per quanto bella sia la signorina Hortense, le occorre una dote…»
«Ohimè! sì,» disse la baronessa asciugandosi gli occhi.
«Ebbene, provate a domandare diecimila franchi al barone,» riprese Crevel, rimettendosi in posa. Attese un momento come un attore che voglia creare una pausa a effetto.
«Se li avesse, li darebbe a quella che prenderà il posto di Josépha!» disse forzando il tono della voce. «Si può forse fermare lungo la china che ha preso? Anzitutto ama troppo le donne! (C’è in tutto un giusto mezzo, come ha detto il nostro re.) E poi c’entra la vanità. È un bell’uomo! Vi manderà tutti alla malora per i suoi piaceri. Del resto siete già sulla via dell’ospizio! Ecco, da quando non ho più messo piede in casa vostra, non avete potuto rinnovare il mobilio del salotto. È come se tutte le crepe di queste stoffe vomitassero la parola miseria. Qual è il genero che non uscirebbe spaventato dalle prove mal dissimulate della più orribile delle strettezze, quella della gente per bene? Io sono stato bottegaio, mi conosco.
1 comment