«No, giovanotto, questo libro non vedrà più la luce del giorno!» gridò. Leib Milner cercò nuovamente di mettere pace.

«David, mio caro genero,» implorò «quanto vuoi che costi un Pentateuco? Ti comprerò le edizioni più pregiate. Lascialo qui e vieni a casa».

David Karnowski non voleva sentir ragioni.

«No, suocero,» rispose furibondo «non glielo lascio. Non ci penso nemmeno». Leib Milner tentò un'altra strada. «David, Lea ti aspetta a casa per il kiddush,» gli disse, «starà morendo di fame». Ma David Karnowski era tanto accalorato dalla disputa che si era completamente dimenticato della moglie. I suoi occhi fiammeggiavano. Il naso sembrava il becco di uno sparviero che sta per dilaniare la sua preda. Era pronto a una guerra senza quartiere. Per cominciare sfidò il rabbino a trovargli anche una sola espressione eretica in quel libro, poi sfoderò tutta la sua erudizione per dimostrare che né il rabbino né i notabili conoscevano una parola degli scritti di Mendelssohn, e non erano in grado di comprenderli.

Dopodiché fu colto da un tale accesso di collera da proclamare che c'erano più dottrina, saggezza e devozione nel dito mignolo del suo maestro Moses Mendelssohn, di benedetta memoria, di quanta ne avessero il rabbino e tutti gli altri maestri hassidici messi insieme. Questo fu troppo. Sentir insultare in quel modo il rabbino e i saggi maestri e chiamare un miscredente «maestro di benedetta memoria» in un luogo santo fece uscire dai gangheri i hassidim. Senza tanti complimenti afferrarono il giovanotto per le braccia e lo buttarono fuori dalla casa di preghiera.

«Vattene al diavolo, insieme al tuo maestro, sia maledetto il suo nome!» gli gridarono dietro. «Va' a raggiungere l'apostata di Berlino, che non trovi mai pace!». David Karnowski seguì il loro consiglio. Nonostante secondo il contratto di matrimonio avesse il diritto di vivere mantenuto ancora a lungo nella ricca dimora del suocero, non voleva più restare nella città dove era stato costretto a subire in pubblico un simile affronto. Il suocero cercò di convincerlo, gli promise che non avrebbe più messo piede nella casa di preghiera dei hassidim ma sarebbe andato a pregare con lui in un'altra sinagoga, dove i fedeli avevano un atteggiamento più moderno e ragionevole. Poteva perfino riunire lui stesso il numero prescritto di dieci uomini per pregare a casa sua, se ci teneva tanto. Lea, la moglie, lo supplicò di non strapparla ai suoi genitori. David Karnowski non volle intendere ragioni.

«Non resterò un giorno di più in mezzo a quei selvaggi e bifolchi,» dichiarò «nemmeno per tutto l'oro del mondo».

Nella sua collera affibbiò ai notabili di Melnitz tutti gli epiteti ingiuriosi che aveva appreso nei suoi libri secolari: oscurantisti, retrogradi, idolatri. Non voleva andarsene solo dalla città che lo aveva umiliato, ma dall'intera Polonia, immersa nelle tenebre dell'arretratezza. Già da tempo era attirato da Berlino, la città dove il suo maestro, il grande Moses Mendelssohn, aveva vissuto e scritto e dalla quale aveva diffuso la sua luce nel mondo. Quando, ragazzino, studiava il tedesco sulla traduzione della Torah di Mendelssohn, si era sentito attratto dal paese al di là della frontiera, da cui veniva tutto ciò che era buono, illuminato, razionale. Quando poi, diventato più grande, aveva cominciato ad aiutare il padre nel commercio del legname, gli era spesso capitato di dover leggere lettere in tedesco provenienti da Danzica, Brema, Amburgo e Berlino. Ogni volta la magia di quei nomi stranieri gli aveva procurato una fitta di dolore. L'appellativo Hochwohlgeboren dell'intestazione evocava nobiltà e raffinatezza. Anche i francobolli colorati con l'effigie dell'imperatore straniero risvegliavano in lui una nostalgia per quella terra, al tempo stesso estranea e familiare. Berlino rappresentava per lui la cultura, sapienza, nobiltà, bellezza, luce attingibili solo in sogno. Ora vedeva l'occasione di realizzare il suo desiderio, e prese a insistere con il suocero perché gli versasse la cospicua dote di Lea e lo lasciasse andare laggiù, oltre frontiera.