Testimone è quel Dio ch’a tutti è Giove ch’altrui più giusta aita unqua non désti.

ma perché il tutto a pieno intenda, or odi le mie sventure insieme e l’altrui frodi.

43

Figlia i’ son d’Arbilan, che ’l regno tenne del bel Damasco e in minor sorte nacque, ma la bella Cariclia in sposa ottenne, cui farlo erede del suo imperio piacque.

Costei co ’l suo morir quasi prevenne il nascer mio, ch’in tempo estinta giacque ch’io fuori uscia de l’alvo; e fu il fatale giorno ch’a lei diè morte, a me natale.

44

Ma il primo lustro a pena era varcato dal dì ch’ella spogliossi il mortal velo, quando il mio genitor, cedendo al fato, forse con lei si ricongiunse in Cielo, di me cura lassando e de lo stato al fratel, ch’egli amò con tanto zelo che, se in petto mortal pietà risiede, esser certo dovea de la sua fede.

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45

Preso dunque di me questi il governo, vago d’ogni mio ben si mostrò tanto che d’incorrotta fé, d’amor paterno e d’immensa pietade ottenne il vanto, o che ’l maligno suo pensiero interno celasse allor sotto contrario manto, o che sincere avesse ancor le voglie, perch’al figliuol mi destinava in moglie.

46

Io crebbi, e crebbe il figlio; e mai né stile di cavalier, né nobil arte apprese, nulla di pellegrino o di gentile gli piacque mai, né mai troppo alto intese; sotto diforme aspetto animo vile, e in cor superbo avare voglie accese: ruvido in atti, ed in costumi è tale ch’è sol ne’ vizi a se medesmo eguale.

47

Ora il mio buon custode ad uom sì degno unirmi in matrimonio in sé prefisse, e farlo del mio letto e del mio regno consorte; e chiaro a me più volte il disse.

Usò la lingua e l’arte, usò l’ingegno perché ’l bramato effetto indi seguisse, ma promessa da me non trasse mai, anzi ritrosa ognor tacqui o negai.

48

Partissi alfin con un sembiante oscuro, onde l’empio suo cor chiaro trasparve; e ben l’istoria del mio mal futuro leggergli scritta in fronte allor mi parve.

Quinci i notturni miei riposi furo turbati ognor da strani sogni e larve, ed un fatale orror ne l’alma impresso m’era presagio de’ miei danni espresso.

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49

Spesso l’ombra materna a me s’offria, pallida imago e dolorosa in atto, quanto diversa, oimè!, da quel che pria visto altrove il suo volto avea ritratto!

Fuggi, figlia, dicea morte sì ria che ti sovrasta omai, pàrtiti ratto, già veggio il tòsco e ’l ferro in tuo sol danno apparecchiar dal perfido tiranno.

50

Ma che giovava, oimè!, che del periglio vicino omai fosse presago il core, s’irresoluta in ritrovar consiglio la mia tenera età rendea il timore?

Prender fuggendo volontario essiglio, e ignuda uscir del patrio regno fuore, grave era sì ch’io fea minore stima di chiuder gli occhi ove gli apersi in prima.

51

Temea, lassa!, la morte, e non avea (chi ’l crederia?) poi di fuggirla ardire; e scoprir la mia tema anco temea, per non affrettar l’ore al mio morire.

Così inquieta e torbida traea

la vita in un continuo martìre, qual uom ch’aspetti che su ’l collo ignudo ad or ad or gli caggia il ferro crudo.

52

In tal mio stato, o fosse amica sorte o ch’a peggio mi serbi il mio destino, un de’ ministri de la regia corte, che ’l re mio padre s’allevò bambino, mi scoperse che ’l tempo a la mia morte dal tiranno prescritto era vicino, e ch’egli a quel crudele avea promesso di porgermi il venen quel giorno stesso.

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53

E mi soggiunse poi ch’a la mia vita, sol fuggendo, allungar poteva il corso; e poi ch’altronde io non sperava aita, pronto offrì se medesmo al mio soccorso, e confortando mi rendé sì ardita che del timor non mi ritenne il morso, sì ch’io non disponessi a l’aer cieco, la patria e ’l zio fuggendo, andarne seco.

54

Sorse la notte oltra l’usato oscura, che sotto l’ombre amiche ne coperse, onde con due donzelle uscii secura, compagne elette a le fortune averse; ma pure indietro a le mie patrie mura le luci io rivolgea di pianto asperse, né de la vista del natio terreno potea, partendo, saziarle a pieno.

55

Fea l’istesso camin l’occhio e ’l pensiero, e mal suo grado il piede inanzi giva, sì come nave ch’improviso e fero turbine scioglia da l’amata riva.

La notte andammo e ’l dì seguente intero per lochi ov’orma altrui non appariva; ci ricovrammo in un castello al fine che siede del mio regno in su ’l confine.

56

È d’Aronte il castel, ch’Aronte fue quel che mi trasse di periglio e scòrse.

Ma poiché me fuggito aver le sue mortali insidie il traditor s’accorse, acceso di furor contr’ambedue, le sue colpe medesme in noi ritorse; ed ambo fece rei di quell’eccesso che commetter in me volse egli stesso.

Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 85

ACTA G.