D’Anna Thèsis Zanichelli Torquato Tasso La Gerusalemme liberata
Canto quarto Q
57
Disse ch’Aronte i’ avea con doni spinto fra sue bevande a mescolar veneno per non aver, poi ch’egli fosse estinto, chi legge mi prescriva o tenga a freno; e ch’io, seguendo un mio lascivo instinto, volea raccòrmi a mille amanti in seno.
Ahi, che fiamma del cielo anzi in me scenda, santa onestà, ch’io le tue leggi offenda!
58
Ch’avara fame d’oro e sete insieme del mio sangue innocente il crudo avesse, grave m’è sì; ma via più il cor mi preme che ’l mio candido onor macchiar volesse.
L’empio, che i popolari impeti teme, così le sue menzogne adorna e tesse che la città, del ver dubbia e sospesa, sollevata non s’arma a mia difesa.
59
Né, perch’or sieda nel mio seggio e ’n fronte già gli risplenda la regal corona, pone alcun fine a i miei gran danni, a l’onte, sì la sua feritate oltra lo sprona.
Arder minaccia entro ’l castello Aronte, se di proprio voler non s’imprigiona; ed a me, lassa!, e ’nsieme a i miei consorti guerra annunzia non pur, ma strazi e morti.
60
Ciò dice egli di far perché dal volto così lavarsi la vergogna crede, e ritornar nel grado, ond’io l’ho tolto, l’onor del sangue e de la regia sede; ma il timor n’è cagion che non ritolto gli sia lo scettro ond’io son vera erede, ché sol s’io caggio por fermo sostegno con le ruine mie pote al suo regno.
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 86
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Canto quarto Q
61
E ben quel fine avrà l’empio desire che già il tiranno ha stabilito in mente, e saran nel mio sangue estinte l’ire che dal mio lagrimar non fiano spente, se tu no ’l vieti. A te rifuggo, o sire, io misera fanciulla, orba, innocente; e questo pianto, ond’ho i tuoi piedi aspersi, vagliami sì che ’l sangue io poi non versi.
62
Per questi piedi ond’i superbi e gli empi calchi, per questa man che ’l dritto aita, per l’alte tue vittorie, e per que’ tèmpi sacri cui désti e cui dar cerchi aita, il mio desir, tu che puoi solo, adempi e in un co ’l regno a me serbi la vita la tua pietà; ma pietà nulla giove, s’anco te il dritto e la ragion non move.
63
Tu, cui concesse il Cielo e dielti in fato voler il giusto e poter ciò che vuoi, a me salvar la vita, a te lo stato (ché tuo fia s’io ’l ricovro) acquistar puoi.
Fra numero sì grande a me sia dato diece condur de’ tuoi più forti eroi, ch’avendo i padri amici e ’l popol fido, bastan questi a ripormi entro al mio nido.
64
Anzi un de’ primi, a la cui fé commessa è la custodia di secreta porta, promette aprirla e ne la reggia stessa pórci di notte tempo, e sol m’essorta ch’io da te cerchi alcuna aita; e in essa, per picciola che sia, si riconforta più che s’altronde avesse un grande stuolo, tanto l’insegne estima e ’l nome solo. —
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 87
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Canto quarto Q
65
Ciò detto, tace; e la risposta attende con atto che ’n silenzio ha voce e preghi.
Goffredo il dubbio cor volve e sospende fra pensier vari, e non sa dove il pieghi.
Teme i barbari inganni, e ben comprende che non è fede in uom ch’a Dio la neghi.
Ma d’altra parte in lui pietoso affetto si desta, che non dorme in nobil petto.
66
Né pur l’usata sua pietà natia vuol che costei de la sua grazia degni, ma il move util ancor, ch’util gli fia che ne l’imperio di Damasco regni chi da lui dipendendo apra la via ed agevoli il corso a i suoi disegni, e genti ed arme gli ministri ed oro contra gli Egizi e chi sarà con loro.
67
Mentre ei così dubbioso a terra vòlto lo sguardo tiene, e ’l pensier volve e gira, la donna in lui s’affisa, e dal suo volto intenta pende e gli atti osserva e mira; e perché tarda oltra ’l suo creder molto la risposta, ne teme e ne sospira.
Quegli la chiesta grazia al fin negolle, ma diè risposta assai cortese e molle: 68
— S’in servigio di Dio, ch’a ciò n’elesse, non s’impiegasser qui le nostre spade, ben tua speme fondar potresti in esse e soccorso trovar, non che pietade; ma se queste sue greggie e queste oppresse mura non torniam prima in libertade, giusto non è, con iscemar le genti, che di nostra vittoria il corso allenti.
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 88
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Canto quarto Q
69
Ben ti prometto (e tu per nobil pegno mia fé ne prendi, e vivi in lei secura) che se mai sottrarremo al giogo indegno queste sacre e dal Ciel dilette mura, di ritornarti al tuo perduto regno, come pietà n’essorta, avrem poi cura.
Or mi farebbe la pietà men pio, s’anzi il suo dritto io non rendessi a Dio —.
70
A quel parlar chinò la donna e fisse le luci a terra, e stette immota alquanto; poi sollevolle rugiadose e disse, accompagnando i flebil atti al pianto:
— Misera! ed a qual altra il Ciel prescrisse vita mai grave ed immutabil tanto, che si cangia in altrui mente e natura pria che si cangi in me sorte sì dura?
71
Nulla speme più resta, in van mi doglio: non han più forza in uman petto i preghi.
Forse lece sperar che ’l mio cordoglio, che te non mosse, il reo tiranno pieghi?
Né già te d’inclemenza accusar voglio perché ’l picciol soccorso a me si neghi, ma il Cielo accuso, onde il mio mal discende, che ’n te pietate innessorabil rende.
72
Non tu, signor, né tua bontade è tale, ma ’l mio destino è che mi nega aita.
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