Ciò che di riprensibile e d’indegno crede in Rinaldo, a suo disnor non tace; superbo e vano il finge, e ’l suo valore chiama temerità pazza e furore.
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E quanto di magnanimo e d’altero e d’eccelso e d’illustre in lui risplende, tutto adombrando con mal arti il vero, pur come vizio sia, biasma e riprende, e ne ragiona sì che ’l cavaliero, emulo suo, publico il suon n’intende; non però sfoga l’ira o si raffrena quel cieco impeto in lui ch’a morte il mena, Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 101
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Canto quinto Q
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ché ’l reo demon che la sua lingua move di spirto in vece, e forma ogni suo detto, fa che gl’ingiusti oltraggi ognor rinove, esca aggiungendo a l’infiammato petto.
Loco è nel campo assai capace, dove s’aduna sempre un bel drapello eletto, e quivi insieme in torneamenti e in lotte rendon le membra vigorose e dotte.
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Or quivi, allor che v’è turba più folta, pur, com’è suo destin, Rinaldo accusa, e quasi acuto strale in lui rivolta la lingua, del venen d’Averno infusa; e vicino è Rinaldo e i detti ascolta, né pote l’ira omai tener più chiusa, ma grida: — Menti —, e adosso a lui si spinge, e nudo ne la destra il ferro stringe.
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Parve un tuono la voce, e ’l ferro un lampo che di folgor cadente annunzio apporte.
Tremò colui, né vide fuga o scampo da la presente irreparabil morte; pur, tutto essendo testimonio il campo, fa sembianti d’intrepido e di forte, e ’l gran nemico attende, e ’l ferro tratto fermo si reca di difesa in atto.
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Quasi in quel punto mille spade ardenti furon vedute fiammeggiar insieme, ché varia turba di mal caute genti d’ogn’intorno v’accorre, e s’urta e preme.
D’incerte voci e di confusi accenti un suon per l’aria si raggira e freme, qual s’ode in riva al mare, ove confonda il vento i suoi co’ mormorii de l’onda.
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 102
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Canto quinto Q
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Ma per le voci altrui già non s’allenta ne l’offeso guerrier l’impeto e l’ira.
Sprezza i gridi e i ripari e ciò che tenta chiudergli il varco, ed a vendetta aspira; e fra gli uomini e l’armi oltre s’aventa, e la fulminea spada in cerchio gira, sì che le vie si sgombra e solo, ad onta di mille difensor, Gernando affronta.
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E con la man, ne l’ira anco maestra, mille colpi vèr lui drizza e comparte: or al petto, or al capo, or a la destra tenta ferirlo, or a la manca parte, e impetuosa e rapida la destra è in guisa tal che gli occhi inganna e l’arte, tal ch’improvisa e inaspettata giunge ove manco si teme, e fère e punge.
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Né cessò mai sin che nel seno immersa gli ebbe una volta e due la fera spada.
Cade il meschin su la ferita, e versa gli spirti e l’alma fuor per doppia strada.
L’arme ripone ancor di sangue aspersa il vincitor, né sovra lui più bada; ma si rivolge altrove, e insieme spoglia l’animo crudo e l’adirata voglia.
32
Tratto al tumulto il pio Goffredo intanto, vede fero spettacolo improviso: steso Gernando, il crin di sangue e ’l manto sordido e molle, e pien di morte il viso; ode i sospiri e le querele e ’l pianto che molti fan sovra il guerrier ucciso.
Stupido chiede: Or qui, dove men lece, chi fu ch’ardì cotanto e tanto fece? —
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 103
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Canto quinto Q
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Arnalto, un de’ più cari al prence estinto, narra (e ’l caso in narrando aggrava molto) che Rinaldo l’uccise e che fu spinto da leggiera cagion d’impeto stolto, e che quel ferro, che per Cristo è cinto, ne’ campioni di Cristo avea rivolto, e sprezzato il suo impero e quel divieto che fe’ pur dianzi e che non è secreto; 34
e che per legge è reo di morte e deve, come l’editto impone, esser punito, sì perché il fallo in se medesmo è greve, sì perché ’n loco tale egli è seguito; che se de l’error suo perdon riceve, fia ciascun altro per l’essempio ardito, e che gli offesi poi quella vendetta vorranno far ch’a i giudici s’aspetta; 35
onde per tal cagion discordie e risse germoglieran fra quella parte e questa.
Rammentò i merti de l’estinto, e disse tutto ciò ch’o pietate o sdegno desta.
Ma s’oppose Tancredi e contradisse, e la causa del reo dipinse onesta.
Goffredo ascolta, e in rigida sembianza porge più di timor che di speranza.
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Soggiunse allor Tancredi: — Or ti sovegna, saggio signor, chi sia Rinaldo e quale: qual per se stesso onor gli si convegna, e per la stirpe sua chiara e regale, e per Guelfo suo zio. Non dée chi regna nel castigo con tutti esser eguale: vario è l’istesso error ne’ gradi vari, e sol l’egualità giusta è co’ pari. —
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 104
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Canto quinto Q
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Risponde il capitan: — Da i più sublimi ad ubidire imparino i più bassi.
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