Mal, Tancredi, consigli e male stimi se vuoi ch’i grandi in sua licenza io lassi.
Qual fòra imperio il mio s’a vili ed imi, sol duce de la plebe, io commandassi?
Scettro impotente e vergognoso impero: se con tal legge è dato, io più no ’l chero.
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Ma libero fu dato e venerando, né vuo’ ch’alcun d’autorità lo scemi.
E so ben io come si deggia e quando ora diverse impor le pene e i premi, ora, tenor d’egualità serbando, non separar da gli infimi i supremi. —
Così dicea; né rispondea colui, vinto da riverenza, a i detti sui.
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Raimondo, imitator de la severa rigida antichità, lodava i detti.
— Con quest’arti — dicea — chi bene impera si rende venerabile a i soggetti, ché già non è la disciplina intera ov’uom perdono e non castigo aspetti.
Cade ogni regno, e ruinosa è senza la base del timor ogni clemenza. —
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Tal ei parlava, e le parole accolse Tancredi, e più fra lor non si ritenne, ma vèr Rinaldo immantinente volse un suo destrier che parve aver le penne.
Rinaldo, poi ch’al fer nemico tolse l’orgoglio e l’alma, al padiglion se ’n venne.
Qui Tancredi trovollo, e de le cose dette e risposte a pien la somma espose.
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 105
ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli Torquato Tasso La Gerusalemme liberata
Canto quinto Q
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Soggiunse poi: — Bench’io sembianza esterna del cor non stimi testimon verace, ché ’n parte troppo cupa e troppo interna il pensier de’ mortali occulto giace, pur ardisco affermar, a quel ch’io scerna nel capitan ch’in tutto anco no ’l tace, ch’egli ti voglia a l’obligo soggetto de’ rei comune e in suo poter ristretto. —
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Sorrise allor Rinaldo, e con un volto in cui tra ’l riso lampeggiò lo sdegno:
— Difenda sua ragion ne’ ceppi involto chi servo è — disse — o d’esser servo è degno.
Libero i’ nacqui e vissi, e morrò sciolto pria che man porga o piede a laccio indegno: usa a la spada è questa destra ed usa a le palme, e vil nodo ella ricusa.
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Ma s’a i meriti miei questa mercede Goffredo rende e vuol impregionarme pur com’io fosse un uom del vulgo, e crede a carcere plebeo legato trarme, venga egli o mandi, io terrò fermo il piede.
Giudici fian tra noi la sorte e l’arme: fera tragedia vuol che s’appresenti per lor diporto a le nemiche genti. —
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Ciò detto, l’armi chiede; e ’l capo e ’l busto di finissimo acciaio adorno rende e fa del grande scudo il braccio onusto, e la fatale spada al fianco appende, e in sembiante magnanimo ed augusto, come folgore suol, ne l’arme splende.
Marte, e’ rassembra te qualor dal quinto cielo di ferro scendi e d’orror cinto.
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 106
ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli Torquato Tasso La Gerusalemme liberata
Canto quinto Q
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Tancredi intanto i feri spirti e ’l core insuperbito d’ammollir procura.
— Giovene invitto, — dice — al tuo valore so che fia piana ogn’erta impresa e dura, so che fra l’arme sempre e fra ’l terrore la tua eccelsa virtute è più secura; ma non consenta Dio ch’ella si mostri oggi sì crudelmente a’ danni nostri.
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Dimmi, che pensi far? vorrai le mani del civil sangue tuo dunque bruttarte?
e con le piaghe indegne de’ cristiani trafigger Cristo, ond’ei son membra e parte?
Di transitorio onor rispetti vani, che qual onda del mar se ’n viene e parte, potranno in te più che la fede e ’l zelo di quella gloria che n’eterna in Cielo?
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Ah non, per Dio!, vinci te stesso e spoglia questa feroce tua mente superba.
Cedi! non fia timor, ma santa voglia, ch’a questo ceder tuo palma si serba.
E se pur degna ond’altri essempio toglia è la mia giovenetta etate acerba, anch’io fui provocato, e pur non venni co’ fedeli in contesa e mi contenni; 48
ch’avend’io preso di Cilicia il regno, e l’insegne spiegatevi di Cristo, Baldovin sopragiunse, e con indegno modo occupollo e ne fe’ vile acquisto; ché, mostrandosi amico ad ogni segno, del suo avaro pensier non m’era avisto.
Ma con l’arme però di ricovrarlo non tentai poscia, e forse i’ potea farlo.
Op. Grande biblioteca della letteratura italiana 107
ACTA G.
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