«E i tuoi compagni dove sono?»
Lietissimo, il cane scodinzolò e gli pose le zampe sulle ginocchia; egli gli carezzò la testa, poi si alzò e si diede a passeggiare lentamente per il salotto.
La luce diventava sempre più tenue e dorata; il vento cessava col cader della sera, e, circondato dal suo fruscìo lieve e monotono, l’ambiente del salotto si rendeva ancor più intimo, più raccolto e soave.
Stefano rialzò le cortine e guardò fuori. Il balcone dava sugli orti, pieni di silenzio e di vaga tristezza; al di là i prati ondulati sfumavano nella soave luminosità del crepuscolo, e gli alberi semispogli si disegnavano rossi e vanescenti sullo sfondo delle lontane montagne. Sopra un’altura rocciosa, fra roveti e macchie, una chiesetta campestre, da quel fondo di cielo cremisino guardava con infinita dolcezza sul piano arato.
Tenendo sempre stretta la cortina entro la bianca, scarna mano, Stefano sentì anche dentro di sé la dolcezza triste e ineffabile delle cose crepuscolari.
Dunque i suoi sentimenti, le sue sensazioni rinascevano? Ebbe persino desiderio di aprire il cembalo, che non toccava da tre mesi; un tintinnìo di capre che tornavano dai pascoli, gli ricordava una sinfonia di Meyerbeer (2), nella quale risuona una caratteristica melodia di leoneddas o pifferi sardi. Fu spinta la porta e apparve la bella testa di Serafina avvolta in una benda color di miele.
«C’è il suo compare Arcangelo Porri», disse la domestica con voce sommessa, senza avanzare.
«Fallo salire qui», rispose il padrone.
Mettendo timidamente i grossi piedi ferrati sul tappeto della porta, di lì a poco entrò un paesano altissimo, dalla smisurata faccia color di lievito macchiata di rosso, con un’ibrida e lunga barba a ciocche in parte nere, in parte color pelo di volpe.
«Come sta, compare don Istene? Buona sera!», disse avanzandosi.
Stefano stese freddamente la mano; il Porri gliela strinse goffamente, e scuotendolo tutto esclamò:
«Sono contento che sia guarito, Dio la guardi! Ho veduto don Piane: sembra un giovane di quindici anni, Dio lo conservi!».
«Sedetevi», disse Stefano; e richiamò Serafina perché accendesse un lume.
5
La bella fantesca depose sul tavolino di sughero un’antica lampada ad olio d’ulivo, d’argento arabescato e adorna di catenelle: Stefano sedette sull’ottomana, e con le palpebre basse, fissandosi le mani intrecciate, ascoltò pazientemente il lungo discorso del Porri, che si lamentava della cattiva annata e di cento altri malanni.
Alla fine, avendo Stefano rialzato gli occhi come per dire: «Basta!» il paesano trasse di tasca una borsa di cuoio nero e ne aprì un’altra di cuoio giallo ricamata e attaccata alla sua cintura. Frugandovi lungamente dentro, a testa china, da quest’ultima borsa trasse un pacchetto di biglietti di banca, quasi tutti laceri e sporchi: poi dalla borsa nera vuotò un mucchietto di monetine d’argento e di rame. E si mise a contarle, mentre Stefano guardava tranquillamente il movimento di quelle grosse mani, livide alla bionda luce della lampada.
Il Porri teneva in affitto una immensa tanca degli Arca, che subaffittava ad altri pastori, e veniva a pagarne il prezzo semestrale, scaduto fin dall’ultimo giorno di settembre.
Siccome egli contava e ricontava sotto voce, imbrogliandosi maledettamente e ricominciando ogni tanto, Stefano cominciò a impazientirsi.
«Lasciate fare a me!», disse, tendendo le mani; e sotto gli attenti occhi del pastore contò spigliatamente e con noncuranza il denaro, gettando le monete sui biglietti, che in breve ne furono ricoperti.
«Mille», disse fermandoli e guardando Arcangelo come per chiedergli: “e le altre cinquecento?”.
«Sicuro», rispose il pastore con disinvoltura, «sono duecento scudi, o non è così? Il resto? eh, il resto quando lo busco: il più presto possibile. Che ella, don compare, possa vedermi cieco se ho potuto raccogliere altro… e quest’anno ci rimetto il collo, lo sa…»
E ricominciò a lamentarsi.
«Ma, diavolo!», disse Stefano, «noi pure dobbiamo pagare le imposte, lo sapete bene! Ho avuto tanta pazienza!»
«Sì, lo riconosco e la ringrazio: ma, com’è vero Cristo, non ho potuto trovar altro! Cioè, sì, se ne avessi voluto, eh, ma…»
Un sorriso misterioso gli sfiorò il volto bluastro. Abbassò la voce e disse che i Gonnesa gli volevano dar mille lire per deporre il falso nel processo dell’assassinio di Carlo Arca.
Stefano ebbe negli occhi un lampo d’ira, ma subito capì che il compare mentiva.
Perché mentiva? Lo comprese dalle parole del pastore:
«Io non sono teste, non ci risulterò, ma se risulterò, dirò la verità, magari caschi il mondo e apparisca Gesù Cristo a piedi in terra! Eh, Arcangelo Porri non si vende per duecento scudi, e neppure per trecento, e neppure per tutto il denaro di questo mondo e dell’altro!».
Stefano aggrottò le sopracciglia, quelle energiche sopracciglia color di corvo che facevano un sì vago contrasto sul suo volto di bimbo, e domandò:
«E cosa sapete voi?».
Dopo qualche riluttanza Arcangelo rivelò il segreto: Saturnino Chessa, il bandito processato, gli aveva un giorno confidato che i Gonnesa volevano incaricarlo di dare una archibugiata a don Carlo Arca.
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