Stefano capì che ciò era perfettamente falso; tuttavia si mostrò interessato e disse gravemente:
«E perché non ne parlaste prima? Ne terrò parola con mio padre».
«Don Piane lo sa; ne parlavamo poco fa; anzi», aggiunse il Porri con disinvoltura, «mi disse che in tal caso potevo dire tutto e che, visto i danni che potevo soffrirne, mi avrebbe lasciato ancora un po’ di tempo per il resto del fitto…»
«Ha detto questo mio padre?…», domandò vivamente Stefano, fissando il Porri.
«Sicuro che l’ha detto!»
«Allora ne parlerò anche con mia cognata Maria. Sta bene!»
Arcangelo Porri capì che non c’era altro da fare, e se n’andò sicuro del fatto suo.
In fondo Stefano provò un violento disgusto contro quest’uomo che voleva deporre il falso e vender l’anima per cento scudi; ma per togliersi ogni scrupolo pensò:
“Dopo tutto è affar suo; e poi chissà? può essere anche vero…”.
6
Depose il denaro entro un cestino di asfodelo ed ebbe piacere di aver una scusa per recarsi da Maria.
Dopo cena infatti, nonostante le proteste di don Piane che, circondato da cani e gatti, stava pregando davanti al camino acceso, Stefano indossò un soprabito invernale foderato di pelliccia, mise la rivoltella in tasca, un pugno di ferro nell’altra, e uscì. Sulle prime sentì un po’ di freddo, ma ben presto, camminando con passo rapido e svelto, si riscaldò.
Il vento era del tutto cessato; grandi striscie di nuvolette bianche si stendevano a ventaglio sul cielo chiaro, d’un azzurro d’oltremare; pareva una immensa raggiera di argento filogranato che attendesse la luna per incoronarla.
E la luna piena spuntava sopra una lontana e immobile linea di alberi neri, in una zona purissima di cielo chiaro come l’acqua d’un fiume. Dapprima apparve un diamante sulla cima d’una quercia, poi brillò un fuoco d’argento e tutta l’immobile linea della lontana foresta parve incendiarsi, ma d’un freddo e bianco incendio, al cui riflesso la raggiera delle nuvole cominciò a impallidire e dissolversi. Stefano guardava, fermatosi quasi suo malgrado, sulla piazzetta della chiesa: le pietre dei paracarri dello stradale che attraversava il paese scintillavano ai primi riflessi lunari: un cane tigrato e melanconico contemplava la sorgente luna e abbaiava lamentosamente; altri cani rispondevano in lontananza e niun altro rumore saliva dal villaggio già addormentato. Stefano riprese la strada e, per giungere più presto alla casa di Maria situata all’opposta estremità del paese, prese a percorrere lunghi viottoli stretti, oscuri e ripidi, fiancheggiati da miserabili casette di pietra; qualche raggio di luce gialla sfuggiva da piccole finestre di legno tarlato e dalle fessure di porticine mal connesse, ma non si scorgeva un’anima, e il gran disco d’oro della luna saliente sul cristallo del cielo illuminava a poco a poco e con infinita tristezza i vecchi tetti di tegole sarde rôse e arrugginite dal tempo.
Uscito dalla sua casa relativamente sontuosa, nel tepore del suo elegante soprabito grigio, foderato di martora, Stefano sentiva la tristezza misera di quelle viuzze, che conosceva pietra per pietra.
Arrivato picchiò con leggera trepidanza la porta d’una vecchia casa di buona apparenza ove abitava Maria, la cui famiglia viveva sulla rendita del molino e dei circostanti orti. Riconoscendo il giovane, la vecchia domestica che aprì con circospezione la porta, si spaventò e fu per farsi il segno della croce e gridare: “Cos’è accaduto?”.
Ma egli se ne accorse e disse, sorridendo:
«Non vi spaventate, zia Larenta (3): buona notte. Sono venuto per vedere come sta Maria: ci hanno detto che stava un po’ male».
«Non è vero, grazie a Dio! Chi ha detto questa bugia? Ma guardi come vanno a spaventare la gente; perché certamente le loro signorie si saranno spaventate!»
Pensava precisamente il contrario l’astuta donna; ma era tutta commossa, e, fatto entrare con premura l’insolito visitatore, si mise, contro la sua abitudine, a camminare rapidamente, gridando:
«Donna Maria? Donna Maria?».
Stefano la seguì, osservando con curiosità intorno: attraversarono un andito, poi una stanza tutta occupata da un antico telaio latino da tessere, nel quale il giovane intravide un lavoro già inoltrato, una coperta da letto, a fondo bianco ed a rose rosse, intessuta da soli ritagli di stoffa candidi e porpurei.
Senza dubbio era quello un lavoro di Maria, ed egli pensò ai lavori frivoli e leggeri della sua elegante nipote e delle signore di città: arrivato in fondo alla stanza si voltò, sembrandogli di scorgere una muta e triste figura china sull’antico telaio.
Zia Larenta lo lasciò nell’attigua stanza, non meno caratteristica della prima, arredata da grandi guardaroba di legno oscuro, bizzarramente incisi, da un divano di legno bianco fornito di cuscini e adorno di un volante di percalle rosso, da sedie di paglia e d’alti sgabelli antichi a due piedi. Sulle pareti un po’ gialle, una fila di quadretti sacri; per terra un braciere ricolmo di brage velate di cenere bianca; sul tavolo la fiamma di una lucerna di vetro ad olio d’olivo metteva in piena luce un cofanetto d’asfodelo pieno di lavori femminili, un giornale spiegato e una piccola Imitazione di Cristo con un nastro nero per segnalibro, e illuminava le scialbe pareti; ma sul pavimento si allargava l’ombra del tavolo con quella del cofanetto da lavoro.
7
Stefano capì di trovarsi in una stanza da pranzo, ma, benché la rassomigliasse a tante altre stanze del villaggio, si sentì subito qualche cosa d’insolito; una gran pace e una grande innocenza, velate da rigidità mistica e dolorosa. E
guardò avidamente ogni cosa, cercando la causa che dava quella speciale fragranza all’ambiente; poi si sedette stanco su uno sgabello e, per la corsa fatta, per il fresco sentito fuori e per il tepore del fuoco che ora lo avvolgeva, provò un lieve, ma doloroso peso al capo; le tempia gli batterono e una leggera vertigine sonnolenta ricominciò a offuscargli lo sguardo. Tuttavia, quando Maria entrò, visibilmente sorpresa e spaventata per la strana visita, egli nitidamente percepì in lei la causa del mistico e melanconico raccoglimento della vecchia casa patriarcale: s’avvide anche del turbamento della cognata e sorrise, ma quasi inconsapevolmente, come si sorride sognando.
«Buona sera: ti sei forse meravigliata?», chiese alzandosi.
«Sicuro!», diss’ella francamente. «È una cosa insolita. E tu come stai? E come sta… tuo padre?» (Non sapeva con qual nome chiamare il suocero.)
«Non c’è male, anzi sta bene, lui: io però non sono ristabilito del tutto.
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