Ma mi dissero che tu pure stavi un po’ male, e sono venuto per questo ed anche per un affare…»
Pronunziò queste ultime parole in modo da lasciar capire di essere venuto più per l’affare che per altro; e Maria provò lieve puntura, ma pregò gentilmente:
«Siediti!».
Ella sedette sul divano, in piena luce, ed egli, guardandola curiosamente, quasi non l’avesse mai veduta, riprese posto sullo sgabello, allargandosi il colletto del soprabito, sulla cui pelliccia il suo volto appariva più smorto e affilato del solito.
«L’affare dunque è questo e va così…», cominciò; e parlò del nuovo e importante testimonio che s’offriva contro il Gonnesa.
Maria s’interessava assai del processo, e quindi ascoltò attentamente, col gomito poggiato sul tavolo e un dito affondato sulla guancia destra; mentre Stefano, che socchiudeva gli occhi per la luce vicina della lucerna, parlando, non cessava di fissarla in volto.
Un volto straordinariamente caratteristico, di un bel tipo sardo-saraceno dal fine profilo, leggermente aquilino, gli occhi lunghi ed oscuri, quasi obliqui e socchiusi per lieve miopìa e la bocca grande, ma d’un taglio perfetto. I neri e lucenti capelli rialzati sulla breve fronte lasciavano scorgere le così dette sette punte delle capigliature, che dànno un ammirabile contorno al viso femminile; ma le cose che più colpivano Stefano erano un neo nell’angolo dell’occhio sinistro, e la bocca, quella bocca misteriosa, di cui ogni moto era un’espressione. Il labbro superiore un po’ rialzato dava al bianco e delicato volto una fisionomia lieta e infantile; ma il labbro inferiore, spaccato nel mezzo, rivelava con la sua linea pura e raccolta un’amarezza segreta e continua, un dolore senza nome e senza confine, una tristezza che dominava anche nel più sincero sorriso. Del resto Maria sorrideva poco, e il sorriso, breve e dolce, le moriva improvvisamente.
Stefano osservandola sentiva una profonda impressione. Cosa mai era stato il dolore suo e di don Piane in confronto a quello ineffabile e incessante di Maria? A un certo punto calcolò lo spasimo che doveva aver provato la giovanissima sposa nel vedersi ucciso il suo adorato pochi giorni dopo le nozze contrastate, e provò un terrore. Allora, improvvisamente, ebbe la percezione della piccolezza, della bassezza dei sentimenti suoi e del padre contro Maria, e lo investì un’ondata di gelo e di vergogna. E vergogna sentì anche per non aver potuto confessare il vero e delicato motivo della sua visita.
Intanto la conversazione proseguiva piana e cordiale; ma ad un tratto Maria disse con semplicità:
«Io credo che il Porri dica il falso. Gli avete forse promesso qualche cosa voi, tu o tuo padre? Ha la vostra tanca di Nuraghe ruju in affitto…».
Stefano, che poche ore prima riteneva la cognata capace di tutto per vendicare il marito, ora ebbe scrupolo di palesarle ogni cosa e disse:
«Non credo sia falso: almeno noi non gli abbiamo promesso nulla…».
«Io credo sia falso invece!», ripeté ella più convinta. «Sarebbe meglio lasciarlo stare; non è un tipo che mi va.»
«Neanche a me; ma parlane con tua madre tuttavia…»
8
Il padre di lei contava poco: in casa faceva e disfaceva tutto la madre, donna Maurizia, un altro tipo caparbio e ostinato, sulla cui fisionomia maschile non mancava neppure un paio di baffetti neri. Quella sera aveva malamente permesso a Maria di ricevere il cognato, ma, ardendo di curiosità, aveva mandato zia Larenta ad origliare.
«Ne parlerò», disse Maria, chinando gli occhi.
Stefano capì che era impossibile violentarle la coscienza e tacque senza insistere oltre. La sua visita così pareva finita, e, credendo ch’egli non s’indugiasse più, ella s’alzò e volle offrirgli il rituale bicchiere di vino. Ma egli protestò e: «Non bevo; grazie: mi fa male», disse, respingendo dolcemente il bicchiere non ancora empito.
Ella parve mortificata nel veder respinto il segno della buona ospitalità; ma tosto ebbe una idea, e, tornando verso il guardaroba, ne estrasse una bottiglia a forma d’anfora.
«Bevi», disse, chinandosi sulla tavola, «è moscato di cinque anni, dolce come il miele. Questo fa bene.»
E, sorridente, con l’alta persona snella, curva davanti a Stefano, versò nel calice il vino color d’oro e trasparente come ambra.
«Basta!», esclamò egli, prendendo il calice; e, sollevandolo, lo urtò contro la bocca della bottiglia. Egli alzò ancora più il calice, seguendolo con gli occhi, poi lo avvicinò alle labbra e, incontrando lo sguardo di Maria, sorrise e bevé.
Bevé e non pensò ad andarsene: bevé troppo, mescendosi egli stesso il vino, e ogni volta che sollevava il bicchiere lo guardava attraverso la luce, quasi cercando nella dorata trasparenza del fragrante moscato una luminosa visione, forse la realtà di quegli archi di perla gialla, di quelle tremolanti gallerie di cristallo e d’oro, di quegli atrî splendenti che conducevano a un incantato palazzo di ágata, che il riverbero del lume produceva sulle sfaccettature del calice.
Non sapendo cosa altro dire, domandò con insistenza a Maria come ella stesse e cosa facesse durante la giornata.
«Così!», esclamò essa un po’ stupita.
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