«Ora sto meglio; anzi sto bene.»
Ma Stefano capì ch’ella diceva così solo per bontà, per non dare sfogo a vani lamenti, e, pensando al ruvido e monotono ambiente in cui ella viveva, ne sentì compassione e disgusto: egli vi sarebbe morto di melanconia; ella invece, delicata e debole, non solo ci viveva rinchiusa come una monaca, circondata d’usi funebri, quasi barbari e inesorabili, ma con la sua bontà illuminava e raddolciva tutta la casa. Come mai ciò? Ella dolcemente glielo spiegò.
Tesseva, lavorava, pregava e taceva. Ed egli pensò a chi sa quali invisibili, tormentosi fili di tristezza, di sogni morti, di dolori fisici e morali, di ricordi il cui miele si cangiava in assenzio, di disperazioni immense e vuote come l’infinito, che certo seguivano la trama della bianca coperta stesa sul telaio. Quante lagrime bagnavano il cuore di quelle rose vermiglie, e quale ineffabile fragranza di dolore le rose così irrorate esalavano? Eppure non una parola d’odio, di vendetta o di ribellione usciva dalle dolci labbra che serbavano il ricordo struggente dei baci e dei singhiozzi; una rassegnazione profonda spirava nell’armoniosa e stanca voce di lei.
Ora finalmente Stefano capiva ciò che esprimevano e cercavano gli occhi e le labbra della delicata creatura, a cui le più intense gioie e i più grandi dolori della vita avevano sfiorato e amareggiato il cuore senza però toglierle la purezza e la fede. Esprimevano un profondo mistero di forza e di bontà, e cercavano un punto ignoto, perduto in regioni invisibili ad occhi profani.
Da più d’un’ora egli sedeva davanti alla tavola, su cui erano aperti i pallidi fogli dell’Imitazione di Cristo, e ancora non pensava ad andarsene; anzi, ogni tanto, continuava a versarsi un po’ di quel vino color miele ed a cercarvi, dentro ed attraverso, qualche cosa indefinita ed ammaliante. Maria lo guardava con un po’ di inquietudine, e avrebbe voluto dirgli: «Bada che ti fa male»; ma non osava.
Lentamente i pensieri di Stefano si velavano, e un torpore caldo, serenamente dolce, gli serpeggiava per le vene: una dolcezza mai provata lo vinceva, ridonandogli l’ineffabile e puro desiderio di sentire sul volto una soave carezza femminile. Ma era da Maria che ora distintamente desiderava questa carezza, e guardandole le mani lunghe e bianche, sentiva le sue rallentarglisi dolcemente stanche e calde sulla pelliccia delle falde rivoltate del soprabito.
9
Avrebbe voluto afferrare le mani di lei e portarsele al volto, e poi stringerle fra le sue e lasciarle così unite per sempre, fino a morir di dolcezza nel tepore di quella stanza, che spirava tutta la pace severa ed eterna d’un’arca mortuaria. Ma non si muoveva, sebbene questa strana felicità gli sembrasse facile a raggiungersi. La realtà gli sfuggiva: il fratello morto, il cui ricordo dava tanto fascino al dolore di Maria e don Piane con le sue domestiche e i suoi gatti e i suoi odî e le sue preghiere e le vicende del passato e le cure del presente, tutto gli sembrava una lontana e inafferrabile ombra.
Solo Maria egli vedeva, e gli pareva che la figura di lei basterebbe d’ora innanzi a colmare tutto il suo passato, il presente e l’avvenire.
Ella intanto, inconscia dell’improvvisa passione che destava, continuava a guardarlo serenamente, col mento poggiato sulla mano chiusa e il gomito sulla tavola; ma gli occhi le si cerchiavano, la voce le si faceva sempre più languida e il volto le diveniva così pallido che pareva d’alabastro. Ella si sentiva mancare per l’ora tarda e per la stanchezza dei troppo prolungati discorsi.
Stefano non capiva ancora che oramai la sua visita riusciva importuna, e solo quando vide la piccola anfora mostrare tutto il bianco colore del cristallo, decise d’andarsene.
«Com’è tardi!», disse alzandosi e guardando Maria. «Tu sei stanca.»
«No», rispose ella; ma aveva gli occhi velati di sonno e di febbre.
«Addio, Maria, buona notte!»
Le prese la mano, gliela strinse forte; non si muoveva. Che voleva? Maria gli vide negli occhi, eguali a quelli del morto, lo stesso raggio di profonda luce che avevano i cari occhi spenti allorché nelle più intime ore di passione le davano e chiedevano tutta l’anima con lo sguardo.
«Addio!», rispose con voce sommessa.
Accompagnò Stefano fino alla porta, ed egli, invece di andarsene subito, si fermò sulla soglia, nel vano bianco di luna, e riprendendole la mano le ripeté con la stessa tenace stretta, col medesimo sguardo profondo:
«Addio, Maria».
Non solo nello sguardo, ma anche nella voce e nel tepore della stretta appassionata, ora ella trovò qualche cosa del morto e del suo amore: e rientrò tremando.
Fatti pochi passi, Stefano si fermò stupito e incantato sullo stradale: la luna alta e purissima illuminava gli orti e il fiumicello; l’acqua glauca scintillava sotto i chiari pioppi vanescenti e scorreva nel silenzio lunare cantando, cantando dolcissimamente. “Domani ritornerò”, disse Stefano fra sé, guardando con un pazzo desiderio il cielo, quasi invocando l’alba lontana; e rimase a lungo così, davanti ai grigi pioppi sfumati nelle trasparenze lunari, sopra il ruscello corrente, che nella sua monotona melodia forse cantava: “Don Stene, don Stene, ritiratevi, svegliatevi! la notte è limpida, ma fredda e insidiosa; dal cielo di platino stillano le gemme velenose della brina e qualche vostro nemico può passare! Chi sa se domani potrete levarvi con l’alba, chi sa se domani potrete ritornare!…”.
II
Il ruscello non mentiva.
L’indomani mattina per tempissimo Serafina batté alla porta di donna Maurizia; siccome nessuno apriva, la domestica spinse con insolenza la porta ed entrò nell’andito, ov’era un acuto e grato odore di caffè bollente.
«Donna Maria? Donna Maria?», gridò la bella ragazza, che nella serena frescura del mattino aveva il volto d’un color di pesca.
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