In quel punto entrò Maria, e il gattino le andò incontro miagolando.

11

«Perché ti sei levata?», rimproverò donna Maurizia.

«Non vi pare ora? E poi ho sentito che mi chiamavano: chi era?»

«Prendi», disse la madre porgendole la scodella scintillante.

«Chi è venuto?», ripeté Maria guardando lo spirito d’uovo senza sorbirlo; e il gattino le si arrampicava sul grembiale.

«Scendi giù, Mimìa», impose donna Maurizia con l’indice teso. «Era quella sciocca di Serafina. Tuo cognato pare che ieri notte, andatosene di qui, abbia fatto qualche stravizio ed ha la febbre di nuovo.»

“Dio mio, il vino!”, pensò Maria, e per il rimorso e per il calore interno della bevanda che lentamente sorbiva, arrossì fin sulle mani. «Ma che stravizio poteva fare?», osservò timidamente.

«E che stravizio fanno i viziosi?», gridò severa donna Maurizia. «Egli lo saprà!

Ed ora vuole che tu vada da lui.»

“Perché mi vuole?”, pensò Maria turbandosi. «Perché mi vuole?», chiese.

«Egli lo saprà. Cosa ne so io? Ma tu non andrai, non è vero?»

«Andrò», rispose Maria chinandosi per deporre in terra la scodella, entro cui il gattino mise subito i baffi e le lunghe sopracciglia.

E chiusa nel suo semplice vestito nero, di stoffa rigida e opaca, ella andò. Don Piane faceva colazione con caffèlatte e biscotti, dividendola con Josto e con due neri gatti lucenti che sembravano manicotti. Quando sentì arrivar Maria fece chiudere l’uscio del salotto da pranzo in modo ch’ella s’accorgesse dello sgarbo. Ed ella se ne avvide, ma dritta e rigida salì le scale con passo leggero, entrò da Stefano preceduta da Serafina, e s’avvicinò al letto con disinvolta confidenza.

«Ebbene, cosa c’è di nuovo?», domandò curvandosi un poco.

Stefano sollevò le palpebre guardandola, e vista così, di sotto in su, in modo che i suoi occhi sembravano ancor più obliqui e profondi, gli parve bellissima.

«Siediti», disse.

Serafina, che spiava avidamente ogni cosa, capì che doveva andarsene, e non poté neppur mettersi in ascolto perché il padrone le impose di lasciar la porta aperta.

Maria rimase in piedi, e siccome egli, invece di parlare, chinava le palpebre con grave espressione di sofferenza, gli tastò il polso e disse:

«Mi pare che tu sia soltanto molto debole. Non hai preso nulla? Che vuoi?».

«Voglio che tu rimanga qui!»

Ella lo guardò stupita, ma credendo che egli vaneggiasse non lo contraddisse.

«Resterò: sta quieto.»

«Sai», diss’egli vivamente, comprendendo ch’ella lo riteneva febbricitante,

«ieri notte ho bevuto troppo, ho preso troppa aria e mi ha fatto male: ho passato un’orribile notte, e solo ora la febbre mi ha lasciato. Il medico me lo diceva però che mi guardassi, che se ricadevo guai! Ora invece son ricaduto ed ho paura, e desidero che tu resti qui, capisci, perché nessuno si cura di me…», e la voce si abbassò in una sommessa vibrazione d’amarezza, «e non solo per me, ma anche per la casa…»

«Ma… tuo padre non c’è?»

«Oh, mio padre!…», e sorrise guardando in alto; ma l’amarezza della voce passava al sorriso ed allo sguardo.

«Riposati per ora. Penserò», disse Maria commossa.

«Non posso riposare se tu non rispondi. Pensaci subito.»

Ella ci pensò subito, chinando la testa, e una voce maligna del suo mondo interno le ricordò subito tutti i rancori, le tristezze, i dolori, le umiliazioni che gli Arca le avevano dato.