L'incantesimo sopravvive, con la stessa intensità che se il luogo natio fosse un paradiso terrestre. Così è stato nel mio caso. L'ho sentito come un destino di fare di Salem la mia casa e la mia patria, in modo che, durante la breve giornata della mia vita, possano ancora essere viste e riconosciute nella vecchia città la forma del volto e la natura del carattere della razza, da sempre note e familiari qui - perché, mentre un rappresentante della razza scendeva nella tomba, un altro, per così dire, subentrava nella sua vigile marcia lungo Main Street. Eppure, proprio questo modo di sentire è la prova che il legame - fattosi poco salubre - dovrebbe essere alla fine reciso. Al pari della patata, la natura umana non alligna, se continua a essere piantata nello stesso suolo esausto per una serie troppo lunga di generazioni. I miei figli sono nati in luoghi diversi e, fino a quando sarò io a controllare il loro futuro, metteranno radici in nuove zolle.
Nell'emergere dal vecchio Presbiterio, fu soprattutto questo attaccamento alla mia città natale, strano, indolente, mesto, a indurmi ad accettare un posto nell'edificio di mattoni dello Zio Sam, quando avrei ben potuto - anzi avrei fatto meglio - ad andare altrove. Il destino incombeva su di me. Non era la prima volta, neppure la seconda, che me ne ero andato via - in modo definitivo, sembrava - ed ero ritornato sempre, come ritorna la monetina falsa, quasi che Salem fosse per me l'ineluttabile centro dell'universo. Così, una bella mattina, salita la rampa di gradini di granito, con in tasca la lettera d'incarico del Presidente, fui presentato al corpo di signori che mi avrebbero aiutato nella pesante responsabilità di sovrintendente della Dogana.
Ho forti dubbi - anzi non ne ho affatto - che negli Stati Uniti un funzionario pubblico, non importa se civile o militare, abbia avuto ai suoi ordini un corpo patriarcale di veterani come il mio. Guardandoli, individuai subito i paraggi dell'Abitante Più Vecchio della città. Per circa vent'anni, prima di quest'epoca, la posizione indipendente dell'esattore aveva tenuto la Dogana di Salem al di fuori del vortice delle vicissitudini politiche, che hanno il potere di rendere così effimera la titolarità degli incarichi. Un soldato - il soldato più illustre della Nuova Inghilterra - si ergeva solidamente sul piedistallo delle sue prodi imprese e, personalmente al sicuro nella saggia liberalità delle successive amministrazioni sotto le quali aveva esercitato la carica, aveva rappresentato per i suoi subordinati un'ancora di salvezza in molte ore di pericolo e di sconquassi. Il generale Miller, conservatore fino al midollo, un uomo sulla cui naturale bontà l'abitudine non aveva una lieve influenza, si attaccava con forza ai volti familiari e con grande difficoltà si persuadeva a mutare, anche quando il mutamento gli avrebbe arrecato un indubbio beneficio. Ecco perché, nell'assumere la titolarità dell'ufficio, trovai soltanto uomini anziani. Erano vecchi capitani per la maggior parte, che dopo essere stati sballottati su tutti i mari e aver vigorosamente affrontato le burrasche della vita, si erano alla fine arenati in quella quieta insenatura, dove, con ben poco a turbarli tranne i terrori periodici dell'elezione presidenziale, tutti rinnovavano l'ipoteca sulla vita. Sebbene non fossero meno esposti dei loro simili ai danni dell'età e della malattia, possedevano evidentemente un qualche talismano che teneva a bada la morte. Due o tre di loro - così mi fu assicurato - gottosi e reumatici, forse costretti a letto, non si sognavano di farsi vedere alla Dogana per buona parte dell'anno, ma, dopo un torpido inverno, solevano sbucare fuori al tiepido sole di maggio o giugno, dedicarsi pigramente a quello che definivano dovere e, quando loro comodava e garbava, infilarsi di nuovo a letto. Mi dichiaro colpevole dell'accusa di aver accorciato la vita ufficiale di più di uno di questi venerabili servitori della Repubblica. Ebbero il permesso, su mia richiesta, di riposarsi dalle strenue fatiche, e subito dopo - quasi che l'unico principio vitale fosse lo zelo nel servire il proprio paese, come sono convinto che fosse - si ritirarono in un mondo migliore. Mi è di pia consolazione il pensiero che, grazie al mio intervento, abbiano avuto tutto il tempo per pentirsi delle pratiche malvagie e corrotte, nelle quali si presume che, per forza di cose, incorrano tutti i doganieri. L'ingresso principale di un ufficio doganale non dà sulla strada che porta in paradiso, e neppure la porta di servizio.
I miei funzionari erano per la maggior parte del partito Whig. Era un bene per la loro venerabile confraternita che il nuovo sovrintendente non fosse un politico e, pur essendo in linea di principio di sicura fede democratica, non avesse ricevuto l'incarico e non ne conservasse la titolarità per meriti legati a servigi politici. Altrimenti, se un politico attivo fosse stato messo in quel posto con il facile compito di spuntarla su un esattore Whig, afflitto da acciacchi che gli impedivano di assolvere personalmente l'incarico, forse nessuno della vecchia guardia avrebbe respirato la vita dell'ufficio per più di un mese da quando l'angelo sterminatore fosse asceso per i gradini della Dogana. Secondo il codice di prammatica in tali faccende, un politico non avrebbe fatto altro che il suo dovere, se avesse portato tutte quelle teste canute sotto la lama della ghigliottina. Era facile intuire che quei vecchietti si aspettavano con paura una simile scortesia da parte mia. Mi addolorava, e nello stesso tempo mi divertiva, osservare il terrore in attesa del mio arrivo, vedere una guancia rugosa, segnata da mezzo secolo di bufere, farsi cinerea alla vista di un individuo innocuo come me; cogliere, quando questo o quello mi si rivolgeva, il tremore di una voce, che in passato era stata avvezza a muggire attraverso un megafono con un tono roco da zittire per la paura lo stesso Borea. Queste eccellenti persone sapevano che, per regola universalmente stabilita - nel caso di alcuni, avvalorata per giunta dall'inefficienza nel lavoro - avrebbero dovuto far posto a uomini più giovani, più ortodossi politicamente, insomma più adatti di loro a servire lo Zio comune. Ne ero consapevole anch'io, ma non riuscivo mai a trovare il cuore di agire in base a tale consapevolezza. A mio grande e meritato discredito e con grave detrimento della mia coscienza di funzionario, costoro continuarono, durante il mio mandato, a trascinarsi nelle vicinanze dei moli e a bighellonare sui gradini della Dogana. Trascorrevano un'enorme quantità di tempo nei loro angolini, con la sedia inclinata all'indietro contro la parete, svegliandosi una o due volte nel corso di una mattinata, per annoiarsi a vicenda ripetendo per chissà quante migliaia di volte vecchie storie marinare e battute stantie, che avevano finito per diventare parole d'ordine e segni di riconoscimento fra loro.
Ben presto - immagino - venne la scoperta che il nuovo sovrintendente non era molto pericoloso.