Poiché non possedeva migliori attributi e non sacrificava né guastava nessuna dote spirituale dedicando alla gioia e al beneficio delle sue fauci tutte le sue energie e tutta la sua ingegnosità, apprezzavo e traevo soddisfazione sentendolo spaziare sul pesce, il pollame, la carne del macellaio e sui metodi migliori per portarli in tavola. Sembrava che il ricordo del buon cibo, per quanto fosse remoto il giorno del banchetto, gli stuzzicasse le narici con la fragranza del maiale o del tacchino. Sul suo palato c'erano sapori che indugiavano lì da non meno di sessanta o settant'anni, ed erano ancora altrettanto freschi della bistecca di montone che aveva appena divorato a colazione. L'ho sentito far schioccare le labbra al ricordo di abbuffate con convitati che da tempo erano tutti, tranne lui, banchetto per i vermi. Era meraviglioso osservare come al suo cospetto si ergesse continuamente lo spettro delle cene di un tempo, non rabbioso o vendicativo, ma quasi grato per l'apprezzamento dimostrato, cercando di rinnovare una serie infinita di piaceri chimerici e nello stesso tempo sensuali. Rinnovava il ricordo di un pezzo di lombata di manzo, di una coscia di vitello, di una costoletta di maiale, di un certo pollo, di un tacchino particolarmente encomiabile, che forse avevano adornato la sua mensa ai tempi del primo Adams, mentre tutta la successiva esperienza della nostra razza e tutti gli avvenimenti che avevano illuminato od oscurato la sua vita individuale erano passati su di lui con lo stesso effetto di una brezza effimera. L'evento più tragico della sua vecchiaia, per quanto mi fu dato di giudicare, fu un incidente con un'oca, vissuta e morta qualcosa come venti o quarant'anni fa; un'oca di figura promettentissima, ma che, a tavola, si era dimostrata così accanitamente dura che il coltello non aveva avuto nessun effetto sulla sua carcassa, e soltanto con l'aiuto di un'accetta e di una sega si era potuto tagliarla a pezzi.
Ma è tempo di concludere questo schizzo, sul quale, tuttavia, sarei lieto di soffermarmi in modo più ampio, perché, di tutti gli uomini che ho conosciuto, costui era il più adatto a fare il funzionario di dogana. Per ragioni cui forse non potrò accennare per mancanza di spazio, quasi tutti si sentono moralmente diminuiti da questo particolare tipo di vita. Il vecchio ispettore era incapace di un sentimento di tal natura e, se avesse continuato nell'incarico fino alla fine dei tempi, lo avrebbe svolto con la stessa capacità di allora e si sarebbe messo a tavola con altrettanto appetito.
C'è un ritratto senza il quale la mia galleria di personaggi della Dogana apparirebbe stranamente incompleta, ma le occasioni di osservarlo - relativamente poche - mi consentono di tratteggiarne soltanto il profilo. Si tratta dell'esattore, il nostro intrepido vecchio Generale, che, dopo una brillante carriera militare, aveva governato un selvaggio territorio nell'Ovest e quindi era lì giunto, vent'anni prima, per trascorrervi il declino di una vita varia e onorevole. Il prode soldato contava - quasi o forse già - settant'anni e continuava la sua marcia terrena sotto il peso di acciacchi che perfino la musica marziale dei suoi eccitanti ricordi poteva ben poco alleviare. Il passo, che era stato in prima fila nelle cariche, era paralizzato. Soltanto con l'aiuto di un cameriere e appoggiando pesantemente la mano alla ringhiera di ferro, riusciva con lentezza dolorosa a salire i gradini della Dogana e, muovendosi piano e a fatica, raggiungere la consueta sedia accanto al caminetto. Lì era solito starsene seduto, osservando con una certa fioca serenità sul volto l'andirivieni della gente, fra il fruscio delle carte, la prestazione di giuramenti, le discussioni di lavoro, le chiacchiere casuali dell'ufficio, suoni e circostanze che sembravano colpire i suoi sensi in modo indistinto e a stento farsi strada fino alla sfera interna di contemplazione. In riposo il suo volto era mite e buono. Se qualcuno cercava di attirare la sua attenzione, sui lineamenti brillava un'espressione di cortesia e interesse, dimostrando che c'era luce dentro di lui e che soltanto l'involucro esterno della lampada intellettuale ostruiva i raggi nel loro percorso. Più si cercava di penetrare nella sostanza della sua mente, più ci si accorgeva di quanto fosse equilibrata. Quando non era tenuto a parlare o ad ascoltare - operazioni queste che gli costavano uno sforzo evidente -, il suo volto riprendeva subito la sua espressione lieta e serena. Non era uno spettacolo doloroso guardarlo, perché il suo aspetto, seppure velato, non mostrava la debolezza dell'età avanzata. La costituzione del suo fisico, in origine forte e massiccia, non si era sgretolata finendo in rovina.
Osservare e definire, tuttavia, il suo temperamento in tali circostanze svantaggiose era un compito difficile quanto disegnare e costruire da cima a fondo, nell'immaginazione, sulla base delle vecchie rovine grigie, una vecchia fortezza come Ticonderoga. Qui e lì le mura forse sono quasi intatte, ma in altri punti forse c'è soltanto un mucchio informe, ingombrante proprio per la sua mole e ricoperto di erba e gramigna durante i lunghi anni di pace e abbandono.
Eppure guardando con affetto il vecchio guerriero - infatti, pur limitata com'era la comunicazione fra noi, si poteva non impropriamente definire tale il mio sentimento verso di lui, al pari di quello di tutti i bipedi e i quadrupedi che lo conoscevano - riuscivo a individuare i tratti caratteristici della sua natura. Aveva tutte le stigmate delle qualità nobili ed eroiche ad attestare come non per puro caso, ma con pieno diritto, si fosse guadagnato un nome illustre. Il suo spirito, credo, non si era mai distinto per una penosa irrequietezza; in ogni fase della vita c'era sempre voluto un impulso a metterlo in moto, ma, una volta avviato, con ostacoli da superare e uno scopo da perseguire, non era da lui rinunciare o venire meno all'impegno. Il fuoco, non ancora spento, che un tempo aveva pervaso la sua natura, non era del tipo che avvampa e guizza in una grande fiammata; era invece un bagliore rosso, intenso, persistente simile al ferro nella fornace. Gravità, solidità, fermezza: ecco l'espressione del suo riposo, perfino nel deperimento che precocemente si era insinuato in lui all'epoca di cui parlo. Ma anche allora riuscivo a immaginarmelo mentre, sotto il pungolo di un qualche stimolo capace di penetrare fino in fondo nella sua coscienza, destato da uno squillo di tromba abbastanza sonoro da risvegliare le sue energie soltanto assopite, non morte, si sbarazzava degli acciacchi, quasi si fosse trattato di togliersi la veste del malato, e, lasciando cadere il bastone della vecchiaia, afferrava la spada balzando su, ancora il guerriero di sempre. E in un momento di tanto significato si sarebbe comportato con calma. Un tale spettacolo si poteva soltanto raffigurarselo nella fantasia, non aspettarselo, né auspicarlo. Quello che scorgevo in lui - palese come i bastioni indistruttibili della vecchia fortezza di Ticonderoga, già citata per essere la similitudine più calzante - erano i tratti di una tenacia caparbia e ponderosa, che forse era ben stata cocciutaggine in gioventù; di una integrità, che, al pari di quasi tutte le altre sue doti, costituiva una specie di greve massa, irriducibile e indomabile quanto una tonnellata di ferro; di una benevolenza, che, pur con tutta la crudeltà dimostrata nel condurre le baionette a Chippewa o a Fort Erie, era, a mio avviso, un marchio genuino, come lo è quello che anima i polemici filantropi del nostro tempo. Per quanto ne sapevo, aveva ucciso uomini di sua mano; certamente erano caduti come fili d'erba sotto i fendenti della falce, davanti alla carica alla quale il suo spirito aveva comunicato una trionfante energia, eppure, sia come sia, nel suo cuore non albergò mai tanta crudeltà da togliere la lanugine dall'ala di una farfalla.
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