Mi sono, al contrario, permesso su questo punto tutta o quasi la libertà che mi sarei presa, se i fatti fossero stati di mia invenzione. Quello che sostengo è l'autenticità dell'insieme.
Questo incidente riportò, in certa misura, la mia mente sul vecchio sentiero. Mi pareva che ci fossero gli elementi per un racconto. Avevo l'impressione che l'antico sovrintendente, nei suoi abiti di cento anni fa, con addosso l'immortale parrucca - sepolta con lui, ma non marcita nella tomba - mi avesse incontrato nello stanzone deserto della Dogana. Nel suo portamento c'era la dignità di chi, investito di un incarico di Sua Maestà, è quindi illuminato da un raggio di quella luce che splende con tanto chiarore intorno al trono. Che diversa, ahimè!, era l'aria squallida del funzionario della Repubblica, che, al servizio del popolo, si sente l'ultimo degli ultimi, più in basso dell'infimo dei suoi padroni! Con la mano spettrale, la figura, intravista oscuramente eppure maestosa, mi aveva consegnato il simbolo scarlatto e il piccolo rotolo del manoscritto che lo spiegava. Con la voce spettrale, in nome della sacra considerazione del mio dovere e riverenza filiale verso di lui, che avrebbe potuto ragionevolmente considerarsi il mio antenato nell'ufficio, mi aveva esortato a portare al pubblico le sue elucubrazioni ammuffite e tarmate. "Fallo", diceva lo spettro del sovrintendente Mr Pue, con enfatici cenni di assenso del capo così solenne sotto la memorabile parrucca, "fallo, e il profitto sarà tutto tuo! Ne avrai bisogno fra poco, perché oggi non è come ai miei tempi quando l'ufficio era un vitalizio e spesso un bene ereditario. Ma in questa faccenda della vecchia comare Prynne ti affido un incarico: da' alla memoria del tuo predecessore il credito che gli spetta di diritto!" E allo spettro del sovrintendente Mr Pue risposi: "Sì!".
Alla storia di Hester Prynne, perciò, dedicai molti pensieri. Fu il tema delle mie meditazioni per lunghe ore, mentre percorrevo avanti e indietro la mia stanza, o attraversavo per la centesima volta il lungo tratto fra il portone principale e quello laterale della Dogana per ritornare quindi sui miei passi. Intense erano la spossatezza e l'irritazione del vecchio ispettore, dei pesatori e misuratori, disturbati nel loro torpore dallo scalpiccio spietatamente protratto dei miei andirivieni. Memori delle precedenti abitudini, erano soliti dire che il sovrintendente camminava sul cassero di poppa, e probabilmente fantasticavano che il mio unico scopo - e invero l'unico scopo per il quale un uomo sano di mente si mette in movimento di sua iniziativa - fosse di farmi venire appetito per il pranzo. E, a dire il vero, l'appetito, aguzzato dal vento dell'est che di solito soffiava nel corridoio, era l'unico risultato apprezzabile di tanto infaticabile esercizio. Così poco propizia è l'atmosfera di una dogana al delicato rigoglio della fantasia e della sensibilità che, se fossi rimasto lì per i successivi dieci mandati presidenziali, dubito che il racconto La lettera scarlatta sarebbe mai giunto agli occhi del pubblico. La mia immaginazione era uno specchio appannato. Non rifletteva, o rifletteva soltanto con penosa vaghezza, le figure con le quali facevo del mio meglio per popolarla. I personaggi della storia non si scaldavano e non diventavano malleabili al calore che riuscivo a produrre nella mia fucina intellettuale. Non si infiammavano di passione e non si intenerivano nel sentimento, ma, rigidi come cadaveri, mi scrutavano in volto con il ghigno cattivo e fisso di una sfida sprezzante. "Che cosa c'entri tu?", sembrava dire l'espressione. "Se ne è andato quel po' di potere che forse un tempo avevi sulla tribù delle cose irreali! L'hai barattato per un tozzo di pane. Va', allora, a guadagnarti lo stipendio!"
Insomma, le creature quasi torpide della mia fantasia mi canzonavano dandomi dell'imbelle, e non senza buon motivo.
Non era soltanto durante le tre ore e mezzo - la porzione della mia vita quotidiana reclamata dallo Zio Sam - che questo squallido torpore si impossessava di me. Mi seguiva nelle passeggiate lungo la spiaggia e nei vagabondaggi per la campagna tutte le volte - mi accadeva di rado e con riluttanza - che mi mettevo in moto per cercare quel fortificante incantesimo della natura, un tempo solito a darmi tanta freschezza e vigore di pensiero, nell'istante in cui varcavo la soglia del vecchio Presbiterio. Lo stesso torpore - per quanto riguarda la capacità di fare uno sforzo intellettuale - mi seguiva a casa e mi gravava addosso nella stanza che, in modo del tutto assurdo, chiamavo il mio studio. E non mi abbandonava quando, tardi di notte, sedevo nel salotto deserto, illuminato soltanto dal bagliore dei tizzoni e dalla luna, mentre cercavo di figurarmi scene immaginarie che, il giorno successivo, sarebbero potute sgorgare sulla pagina luminosa in variegate descrizioni.
Se l'immaginazione si rifiutava di operare in quell'ora, ben lo si poteva considerare un caso disperato. Il chiarore della luna in una stanza familiare, che, cadendo così bianco sul tappeto, ne rivela tutte le figure con tanta nitidezza e rende visibili gli oggetti in tutti i particolari, ma li fa apparire assai diversi da come appaiono al mattino e a mezzogiorno, è il tramite ideale perché lo scrittore di romanzi faccia conoscenza con gli ospiti della sua illusione. C'è la piccola scena domestica dell'ambiente noto; le sedie, ciascuna con la sua individualità, il tavolo nel mezzo con sopra un cestino da lavoro, uno o due libri, una lampada spenta; la biblioteca, il quadro sulla parete, tutti questi particolari, visti con tanta chiarezza, sono così spiritualizzati dalla luce insolita che sembrano perdere la loro sostanza concreta e diventare oggetti dell'intelletto. Nulla è troppo piccolo o troppo insignificante da non subire questa metamorfosi, acquistando in tal modo dignità. La scarpa di un bambino, la bambola nella carrozzina di vimini, il cavalluccio, in una parola tutto quanto è servito anche per gioco durante il giorno assume ora una sua aria strana e remota, pur rimanendo presente con quasi altrettanta vivezza che alla luce del sole. Così il pavimento della nostra stanza familiare si trasforma in un territorio neutrale, qualcosa fra il mondo reale e il regno della fiaba, dove possono incontrarsi il Reale e l'Immaginario e ciascuno impregnarsi della natura dell'altro. Qui potrebbero entrare gli spettri senza spaventarci.
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