Stavo per gettare via la canfora, quando mi venne in mente che è una materia infiammabile e che, bruciando, sviluppa una luce molto intensa - per le candele è, infatti, eccellente -, quindi me la misi in tasca. Non trovai esplosivi né alcun congegno che potesse servirmi a smantellare le porte di bronzo; la mia leva di ferro restava l'arnese più utile che avessi a disposizione. Nondimeno mi allontanai da quella galleria in condizioni di spirito sollevate.
«Non posso farvi un resoconto esatto di quel lungo pomeriggio, la mia memoria non è in grado di coordinare tutti i miei spostamenti nell'ordine preciso in cui avvennero; ricordo una lunga galleria fiancheggiata da rastrelliere arrugginite cariche di armi, e ricordo di aver esitato tra la sbarra di ferro che avevo in mano e un'accetta o una spada; non potevo portarle tutte e due, ma forse la sbarra era più adatta a forzare le porte di bronzo. Vedevo intorno a me una grande quantità di pistole, rivoltelle e fucili, quasi tutti ridotti a un ammasso di ruggine, salvo qualche esemplare conservato abbastanza bene, costruito in un metallo che non conoscevo; se cartucce e polvere da sparo avevano fatto parte della collezione, non ne restava più traccia. Un angolo del locale era completamente smantellato, forse, pensai, a causa di uno scoppio verificatosi fra i campioni di esplosivi. In un altro salone era raccolto un numero imponente di idoli polinesiani, messicani, greci, fenici e di ogni altro paese della terra; e qui, spinto da un irresistibile impulso, scrissi il mio nome sul naso di steatite di un mostro sud-americano che mi colpì particolarmente la fantasia.
Col calar della sera il mio interesse per il museo andava diminuendo; attraversai una galleria dopo l'altra, tutte piene di polvere, silenziose e spesso in rovina, in cui gli oggetti esposti erano sovente ridotti a mucchi di ruggine e di legno fossilizzato; trovai il plastico di una miniera di stagno, e poco dopo, per puro caso, due cartucce di dinamite conservate in una custodia a chiusura ermetica. "Eureka!", gridai, e spezzai il vetro con grande entusiasmo. Ma subito dopo fui preso da un dubbio, esitai, quindi tentai una prova in una piccola galleria laterale, e subii una delle più grandi delusioni della mia vita. Attesi invano l'esplosione per cinque, dieci, quindici minuti; naturalmente si trattava di cartucce false, e avrei dovuto accorgermene dal loro aspetto. Credo che, in caso contrario, avrei fatto saltare in aria le porte di bronzo, la sfinge e tutte le mie speranze di riconquistare la Macchina del Tempo.
«Fu allora, credo, che uscimmo in un piccolo cortile che si apriva nell'interno del palazzo; poiché dal terreno erboso si levavano tre alberi da frutta, potemmo ristorarci un poco mentre riposavamo. Verso il tramonto cominciai a considerare la nostra situazione: la notte si avvicinava, e non avevo ancora trovato il nascondiglio inaccessibile che cercavo. Ma la cosa, adesso, mi preoccupava meno, perché possedevo quella che forse era l'arma migliore di tutte, per difendermi dai Morlock: avevo dei fiammiferi e, se fosse stata necessaria una fiammata, la canfora.
«Mi parve che la miglior cosa fosse passare la notte all'aperto sotto la protezione di un fuoco, e tentare, la mattina seguente, di ricuperare la Macchina del Tempo. Per questa impresa avevo a mia disposizione soltanto la sbarra di ferro; ma giudicavo ormai in maniera diversa quelle porte di bronzo, e se mi ero finora trattenuto dal forzarle, era stato soprattutto a causa del mistero che nascondevano. Non le avevo mai ritenute troppo resistenti, e speravo che la mia mazza di ferro non fosse inadeguata al compito cui era destinata.
11
Nel buio della foresta
«Uscimmo dal palazzo che il sole toccava quasi la linea dell'orizzonte: ero deciso a raggiungere la sfinge bianca al sorgere del giorno, perciò, prima che fosse buio, bisognava attraversare la foresta che mi aveva sbarrato il cammino all'andata. Il mio progetto consisteva nel percorrere quella sera stessa quanta più strada fosse possibile; poi avrei acceso un fuoco e ci saremmo addormentati protetti dalla sua luce. Di conseguenza, raccolsi durante il cammino rami e foglie secche fino ad averne le braccia cariche. Così appesantito, camminavo più adagio di quanto avessi previsto, e anche Weena era stanca; inoltre, il sonno cominciava a farsi sentire, quindi la notte ci sorprese prima che entrassimo nel bosco. Al limitare di esso, sulla collina folta di arbusti, Weena avrebbe voluto fermarsi, impaurita dall'oscurità che regnava sotto gli alberi; ma una singolare minacciosa sensazione di pericolo - una specie di presentimento - mi spinse ad andare avanti. Non dormivo da una notte e due giorni, e questo mi rendeva inquieto e irritato; sentivo avanzare il sonno, e con esso i Morlock.
«Mentre esitavo sul da farsi, scorsi tre figurine accucciate tra i cespugli dietro a noi, indistinte nell'oscurità. Intorno non vi era che erba alta e miseri arbusti, sicché non mi sentivo per nulla al sicuro dall'insidia che si avvicinava. Calcolavo che il bosco non si stendesse, nel senso della lunghezza, per più di un chilometro e mezzo: se avessimo potuto attraversarlo e raggiungere, oltre di esso, il fianco libero della collina, forse avremmo trovato là il rifugio sicuro per riposare; pensavo che, usando fiammiferi e canfora, mi sarebbe stato facile illuminarmi il sentiero attraverso il bosco. Ma per far questo avrei dovuto abbandonare la legna da ardere: la posai quindi a terra con una certa riluttanza, poi mi venne in mente di sbalordire i nostri amici accendendo un bel fuoco. Dovevo ben presto capire di aver compiuto un'enorme sciocchezza, e non una mossa strategica per coprire la nostra ritirata.
«Forse non avete mai pensato che la fiamma non si produce tanto facilmente, in un luogo deserto a clima temperato: il calore solare è raramente così forte da provocarla, anche attraverso una lente di rugiada, come accade talvolta in molti paesi tropicali; il fulmine può distruggere e annerire, ma difficilmente provoca un incendio molto vasto. La materia vegetale putrefatta può dar luogo incidentalmente a una combustione dovuta al calore della fermentazione, ma di rado tali fenomeni si risolvono in una fiammata. In questa èra di generale decadimento, inoltre, l'arte di accendere il fuoco era stata dimenticata sulla terra: le rosse lingue che lambivano il mucchio di legna rappresentavano per Weena una stranissima novità.
«La mia amica voleva a tutti i costi avvicinarsi alle fiamme e giocare con esse; credo che, se non l'avessi trattenuta, si sarebbe gettata nel fuoco. La presi in braccio, e per quanto si divincolasse come un'anguilla, entrai coraggiosamente nel bosco. Per un po' la luce del fuoco illuminò il sentiero; ma, guardando indietro, dopo qualche tempo, potei vedere, attraverso l'intrigo dei rami, che dal mio mucchio di sterpi la fiammata aveva attaccato alcuni cespugli adiacenti, e che una fascia ricurva di fuoco stava avanzando sull'erba della collina. Scoppiai in una risata, poi mi volsi di nuovo verso le sagome nere degli alberi che mi si levavano davanti. Il buio era fitto, e Weena si stringeva convulsa contro di me; non appena i miei occhi si furono abituati all'oscurità, riuscii a camminare senza urtare contro i rami. Anche sopra le nostre teste l'oscurità era quasi uniforme, rotta soltanto qua e là da qualche sprazzo di remoto azzurro che filtrava attraverso le chiome degli alberi.
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