A un tal genere di vita, quelli che noi chiameremmo i deboli sono adatti come i forti, e di conseguenza non sarebbe più possibile parlar di deboli; anzi, questi ultimi si troverebbero assai più a loro agio, perché i forti sarebbero logorati da un'energia che non troverebbe sfogo. Senza dubbio, la squisita bellezza degli edifici che vedevo era il risultato degli ultimi sprazzi di energia sviluppata dal genere umano prima che esso si indebolisse, in perfetta connessione con le sue attuali condizioni di vita: dopo quel trionfo aveva avuto inizio la grande pace definitiva. Ed è sempre stato questo il destino della forza in un clima di sicurezza completa: essa si abbandona all'estetismo sia nelle arti che nell'amore, poi si illanguidisce e decade.

«Anche l'impeto di operosità artistica alla fine si spegne: nel tempo che io avevo sotto gli occhi era già quasi morto. Adornare la propria persona di fiori, danzare, cantare nella luce del sole: ecco quello che era rimasto dello spirito artistico; niente altro. E anche questo sarebbe infine sfociato in una tranquilla, paga inattività. La nostra acutezza si affila alla cote del dolore e della necessità; per quanto potevo vedere, questa aborrita cote era stata finalmente spezzata!

«Mentre me ne stavo tutto solo nell'oscurità crescente, pensavo di avere infine spiegato con molta semplicità a me stesso il problema del mondo e il segreto di quel popolo incantevole. Forse il controllo stabilito per frenare l'accrescere della popolazione era stato anche troppo perfetto; il numero degli individui era diminuito, piuttosto che rimanere stazionario, e questo avrebbe spiegato le abbondanti rovine inutilizzate. La mia interpretazione era semplicissima e abbastanza plausibile, come la maggior parte delle teorie sbagliate!

«Mentre meditavo su questo troppo perfetto trionfo dell'uomo, la luna piena, gialla e gibbosa, si levò da nord-est in una gloria di luce argentata. I deliziosi esseri non si muovevano più, sotto la collina; una civetta solcò silenziosamente l'aria, e io rabbrividii al freddo della notte. Decisi quindi di scendere e trovarmi un posto per dormire.

«Cercai con lo sguardo il palazzo che già conoscevo; poi i miei occhi passarono oltre la figura della sfinge bianca, che si faceva sempre più distinta sul suo piedistallo di bronzo a mano a mano che la luna si levava più luminosa nel cielo. Vedevo la betulla gettare la sua ombra contro la statua e le macchie di rododendri neri sotto la pallida luce, e il prato. Guardando appunto in direzione del prato, uno strano dubbio gelò in me ogni senso di euforia. "No", dissi con forza a me stesso; "no, il prato non era quello".

«E invece era proprio quello, perché il volto bianco e lebbroso della sfinge era ancora rivolto nella mia direzione. Potete immaginare ciò che provai quando ne fui veramente convinto? Non lo potete, non è possibile: la Macchina del Tempo era sparita! L'eventualità di restare per sempre fuori del mio tempo, abbandonato in un bizzarro mondo nuovo, mi colpì come una sferzata sul viso; e questo pensiero era come una sensazione fisica reale, sentivo salirmelo alla gola e soffocarmi il respiro.

6
La Macchina è perduta

Preso da una paura folle, scesi il pendio così a precipizio, che caddi e mi ferii il viso; ma non persi tempo a tamponarmi il sangue, mi rialzai d'un balzo e ripresi a correre dicendo continuamente a me stesso: "L'hanno soltanto spostata un pochino, forse l'hanno spinta tra i cespugli, per questo non si vede". Nondimeno accelerai ancora la mia corsa; sentivo, con quella certezza che accompagna talvolta il terrore, che ogni parola rassicurante era pura follia; sentivo istintivamente che non avrei più potuto raggiungere la macchina. Il respiro mi divenne doloroso; credo di aver percorso l'intera distanza dalla sommità della collina fino al prato, circa un tre chilometri, in dieci minuti, e non sono più un giovanotto. Correvo maledicendo ad alta voce me stesso per essere stato tanto pazzo da abbandonare la macchina, e sprecavo così un fiato prezioso; a un certo punto gridai, e nessuno mi rispose, nessuno si mosse, in quel mondo illuminato dalla fredda luce lunare.

«Quando giunsi sul prato vidi che la mia paura non era infondata: nessuna traccia della macchina.

Guardai nel folto dei cespugli, e mi sentii mancare, mentre un sudore freddo mi copriva la fronte; girai furibondo attorno alla macchia come se ciò che cercavo potesse essere nascosto in un angolo, poi mi fermai di colpo con le mani nei capelli; la sfinge mi dominava dall'alto del suo piedistallo di bronzo, bianca, corrosa dalla lebbra, scintillante sotto la luce della luna; e sorrideva beffarda alla mia costernazione.

«Avrebbe forse potuto confortarmi il pensiero che i miei piccoli ospiti avessero trasportato la macchina in un luogo riparato, se non fossi stato certo che essi non potevano aver avuto né la forza di fare una cosa simile né l'intelligenza di pensarla. Ero atterrito all'idea che la mia macchina fosse svanita per l'intervento di una forza misteriosa ancora ignota. Però sapevo con certezza una cosa: la macchina non avrebbe potuto muoversi nel tempo, a meno che un'altra età non ne avesse prodotto un esatto duplicato; il punto di innesto delle leve era, infatti, costruito in modo tale - vi mostrerò più tardi il sistema - da impedire a chiunque di applicarne delle altre allorché quelle originali fossero state tolte. Avevano rimosso l'apparecchio e l'avevano nascosto, ma soltanto nello spazio: e allora, dove mai poteva essere?

«Fui preso da una specie di frenesia; ricordo di essermi messo a correre all'impazzata in mezzo ai cespugli, attorno alla sfinge, e di aver fatto fuggire alcuni animali bianchi che, nella luce incerta, mi parvero piccoli daini; ricordo anche di aver continuato per molto tempo a battere i cespugli coi pugni chiusi, fino a farmi sanguinare le nocche delle dita; poi, singhiozzando in. un delirio di angoscia, mi avviai verso il grande fabbricato di pietra «L'atrio era buio, silenzioso, deserto. Scivolai sul pavimento disuguale, e urtai con forza contro una delle tavole di malachite spezzandomi quasi gli stinchi. Accesi un fiammifero, passai oltre le cortine polverose di cui vi ho già parlato, e mi trovai in un secondo salone, vastissimo, dal pavimento coperto di cuscini, su cui stavano dormendo venti circa di quelle minuscole creature; Sono certo che la mia seconda apparizione dovette sembrar loro abbastanza strana: ero balzato dalla tranquilla oscurità facendo ogni sorta di rumori, illuminato dalla debole luce di un fiammifero, oggetto del tutto sconosciuto. "Dov'è la mia Macchina del Tempo?", cominciai, gridando come un bambino incollerito e scuotendo ora l'uno ora l'altro dei dormienti. Il mio modo di comportarmi sembrò loro senza dubbio assai strano, perché qualcuno si mise a ridere, mentre altri mi parvero spaventatissimi. Quando li vidi tutti in piedi attorno a me mi accorsi di agire in una maniera maledettamente sciocca, date le circostanze, perché tentavo di far rivivere in essi il senso della paura; dal loro modo di comportarsi durante quella giornata, avrei dovuto sapere che la paura era un sentimento ormai dimenticato.

«Lasciai cadere il fiammifero che avevo in mano, attraversai correndo alla cieca il salone da pranzo dopo aver fatto capitombolare con una spinta uno dei miei ospiti, e uscii nella notte: udii grida di terrore e uno scalpiccio di piedini che correvano incespicando in tutte le direzioni. Non ricordo che cosa altro feci, mentre la luna saliva sempre più alta nel cielo; pensai che l'inaspettata perdita del mio apparecchio mi avesse reso completamente pazzo; mi sentivo tagliato fuori dal mio mondo - strano animale in un universo sconosciuto -, e debbo aver vagato urlando come in delirio e maledicendo Iddio e il destino. Ho ancora l'impressione di una tremenda stanchezza, che aumentava col trascorrere di quella lunga notte disperata; frugavo nei posti più inverosimili, brancolavo tra le rovine sfiorando misteriose creature nell'ombra della notte; e infine mi stesi per terra accanto alla sfinge, e piansi come il più miserevole dei disgraziati: non mi restava che la disperazione. Infine caddi in un sonno profondo, e quando mi svegliai era giorno fatto: una coppia di passeri saltellava sull'erba vicino al mio braccio.

«L'aria era limpida. Sedetti, cercando di ricordare perché mi trovavo in quel luogo, e di spiegarmi il profondo senso di vuoto e di disperazione che avvertivo in me; poi mi si risvegliò la memoria.