Non avevo sue notizie da una quindicina di giorni, cosa molto inconsueta, e cominciavo a sentirmi in pensiero per lei. La visione mi preoccupò ancor più, e le scrissi subito per chiederle se tutto andava come doveva. La sua risposta fu questa: «Mi dispiace di non avere avuto il tempo di scriverti questa settimana, ma sono stata terribilmente affaccendata. La settimana prossima metteremo in scena Il Castello di LA MORTE NON ESISTE di Florence Marryat

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Colleen, e io ho dovuto preparare il vestito per “Anne Chute”. Fa un magnifico effetto! Vorrei che potessi vederlo. Un abito verde con fenditure arancione, e un cappello feltro grigio con una lunga piuma verde e un grande fermaglio d’oro. L’ho provato l’altra sera e stavo benissimo, ecc. ecc.».

Dunque il desiderio della mia cara ragazza era stato esaudito, e io avevo visto il suo abito.

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5 - ILLUSIONI OTTICHE

Dato che ho fatto allusione a ciò che la mia famiglia chiamava «illusioni ottiche», penso che sia bene descriverne alcune, che, dall’insieme, sembrano essere qualche cosa più di un semplice temporaneo disturbo dei miei organi visivi. Trascurerò quelli che possono essere imputati, a torto o a ragione, a cause fisiche e mi limiterò ai fenomeni che, in seguito, risultarono un riflesso di eventi a me ignoti e avvenuti in precedenza.

Nel 1875 ero molto impegnata nel dar letture drammatiche in varie parti del paese, e, per questo, visitai Dublino per la prima volta alloggiando nel più grande e meglio frequentato albergo della città. Tra l’ospitalità degli abitanti e i miei doveri professionali ero occupata giorno e notte, e, quando finalmente andavo a letto, ero nelle migliori disposizioni per dormire come un ghiro. Ma, in quell’albergo, c’era qualche cosa che non me lo permetteva. Avevo una bella stanza, allegra, luminosa e piacevole, dotata di ogni conforto: mi ritiravo per abbandonarmi esausta e cadere subito nel sonno, ma ero svegliata anche una dozzina di volte per notte da quel qualche cosa (o quel nulla) inesplicabile che sorge in me quando sto per avere una «illusione ottica», e vedevo figure, a volte una sola, a volte due o tre, a volte un intero gruppo che mi stava al fianco

del letto e mi fissava con sguardi attoniti come per domandarmi con qual diritto mi trovassi lì. Ma la cosa per me più notevole era che tutte quelle figure erano di uomini in uniformi militari, a cui ero troppo abituata per potermi sbagliare. Alcuni erano ufficiali, altri semplici soldati, alcuni in alta uniforme, altri in uniforme ordinaria, ma tutti appartenevano all’esercito, e tutti sembravano oppressi dallo stesso sentimento di meraviglia nel vedere me in quell’albergo.

Queste apparizioni erano così reali e si presentavano così di frequente che io ne ero veramente disturbata, perché, per quanto si possa essere abituati ad avere «illusioni ottiche», non è piacevole immaginarsi che vi sono lì una ventina di estranei che ci fissano ogni notte mentre dormiamo. Lo spiritismo è, o era, un vero tabù a Dublino, e io ero stata espressamente avvertita di non farne menzione con le mie nuove conoscenze. Tuttavia non potei mantenere del tutto il silenzio su questo argomento, e un giorno, durante un desinare en famille presso una famiglia ospitale di nome Robinson, riferii loro le mie esperienze notturne. Il padre, la madre e il figlio esclamarono insieme: «Buon Dio! Non sapete che quell’albergo è stato costruito sul luogo dell’antica caserma? La casa immediatamente dietro di esso, che faceva parte del vecchio edificio, è stata abbandonata dagli inquilini perché era infestata. Ogni sera, all’ora della ritirata, sentivano uno strepito di passi su per le scale».

«Può darsi», risposi, «ma loro sapevano che la loro casa sorgeva sul luogo 42

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della caserma, mentre io non lo sapevo».

La mia figlia maggiore trascorreva una volta con me un periodo di vacanza, dopo il mio secondo matrimonio, nel mese di agosto. Era stanchissima per l’eccessivo lavoro, e io la facevo restare a letto fino a mezzogiorno. Un mattino mi ero recata nella sua stanza a quell’ora, per svegliarla e, nell’andarmene (in piena luce, ricordo), incontrai un uomo sul pianerottolo subito fuori della sua porta. Indossava una camicia bianca con bottoni neri e un paio di calzoni neri.

Aveva neri gli occhi e i capelli, e lineamenti sottili, ma mi colpì intimamente per il suo aspetto sinistro e sgradevole. Rimase immobile, con la mano sul battente aperto, e lo fissai. Anche lui mi guardò per un minuto, poi si volse e cominciò a salire le scale del piano superiore, dove era la stanza dei bambini, invitandomi, con un cenno della mano, a seguirlo.