Ma s’interruppe per cortesia, notando il sorriso ironico ed incredulo della contessa.

La conversazione languì e per una mezz’ora si udì soltanto il rumore delle forchette e dei coltelli, oltre il lieve, scoppiettante rumore dei piedi nudi di Bozena che girava intorno alla tavola per servire nuove portate.

Infine il barone Elsenwanger si pulì la bocca e disse: «Vogliamo ora fare il nostro whist?».

Dal giardino, un ululo sordo e prolungato risuonò nella calma della notte estiva a troncargli il discorso.

«Gesummaria! Questo è un brutto segno! Deve esserci la morte in casa!».

«Brock, bestiaccia maledetta, a cuccia!» gridò un domestico giù nel parco, nel punto in cui il Pinguino scostò le pesanti cortine e, per vedere, aprì la porta a vetri che dava sulla veranda.

Un’ondata di luce lunare si riversò nella stanza e una corrente di aria fresca, satura dell’aroma delle acacie, mosse e fece fumare le fiamme dei candelabri di cristallo.

Sul cornicione dell’alto muro di cinta del parco, largo appena un palmo, di là dal quale Praga sonnecchiante dietro alla Moldava alitava, in un mare di vapori, un soffio rossastro fin verso le stelle, camminava lentamente un uomo, rigido, tastando con le mani distese come un cieco: ora, semicoperto dall’ombra spettrale proiettata dalle torri del castello, sembrava una coagulazione della rilucente chiarità lunare, ora, mostrandosi in piena luce e sovrastando l’oscurità, dava l’impressione che andasse sospeso sul vuoto.

Il medico di corte non credeva ai suoi occhi. Per un istante, pensò di sognare.

Ma il rabbioso abbaiare del cane lo fece tornare in sé. Egli udì un grido acuto, vide la figura barcollante sul cornicione e poi sparire, come spazzata vìa da una silenziosa folata.

Dal fruscio delle foglie e da un rumore di rami spezzati egli capì che quell’uomo era precipitato nel giardino.

«All’assassino! Chiamate le guardie!» gridò a squarciagola il nobile di Schirnding, che, a quel grido, come la contessa, era balzato in piedi e si era precipitato verso la porta.

Quanto a Costantino Elsenwanger, egli si gettò in ginocchio lamentandosi; col viso nascosto fra i cuscini della poltrona, si mise a recitare un paternostro tenendo ancora fra le mani una coscia di pollo arrosto. Simile ad un gigantesco uccello notturno con tronconi di ali senza penne, il medico di corte si era messo a gesticolare sulla veranda, gridando degli ordini. I domestici uscirono di corsa dalla casetta della portineria nel parco e, muniti di lumi, si misero a perlustrare, chiamandosi animatamente a vicenda nell’oscurità del boschetto.

Dal suo abbaiare continuo, ad intervalli regolari, sembrava che il cane avesse ormai scovato l’intruso.

«Ebbene? L’avete finalmente preso, quel cosacco prussiano?» gridò rabbiosa, dalla finestra aperta, la contessa, che intanto non aveva dato il minimo segno di agitazione o di paura.

Si udì la voce tremante di Bozena, la cameriera: «Santa madre di Dio, si è rotto il collo!». La servitù aveva portato nella zona di luce proiettata sulla radura dalla stanza illuminata il corpo disanimato di un uomo, trovato a pie’ del muro.

«Portatelo quassù! Presto! Prima che muoia dissanguato!» ordinò la contessa con calma e freddezza, senza badare al brontolio del padrone di casa, il quale, spaventato, avrebbe invece voluto che, prima che riprendesse i sensi, quell’uomo fosse stato gettato dalla scarpata di là dal muro.

«Lo si porti almeno nella sala dei ritratti, non qui», supplicò Elsenwanger.

Spinse la contessa e il Pinguino, che aveva afferrato uno dei candelabri accesi, nella sala degli antenati, e chiuse in fretta la porta dietro di loro.

Nel vasto ambiente a galleria, eccetto un paio di sedie intagliate dall’alto schienale dorato e una tavola, non vi erano mobili. Un greve odore di muffa e uno strato di polvere sul pavimento di pietra lasciavano capire che quella sala da lungo tempo era rimasta chiusa e disabitata.

Vi si trovavano dei ritratti in grandezza naturale, senza cornice, disposti in incassi delle pareti: figure di uomini dalle giubbe di cuoio, tenenti imperiosamente fra le mani rotoli di pergamena - dame col collare alla Stuart e sbuffi alle braccia - un cavaliere con un mantello bianco recante la croce dell’Ordine di Malta - una giovane donna biondo-cenere in crinolina, con nei finti sulle guancie e sul mento, con un sorriso crudele e in pari tempo voluttuosamente dolce sul volto vizioso, mani meravigliose, naso sottile, lunghe, fini narici, alte ciglia arcuate sugli occhi verde-grigio - una monaca nella veste dell’Ordine delle Bernabite - un paggio - un cardinale dalle magre mani ascetiche, palpebre color piombo ed occhi affossati ed atoni. Così come stavano nelle loro nicchie, tutte queste figure sembravano essere accorse nella sala da oscuri corridoi, quasi che la luce vacillante delle candele e l’agitazione penetrata nel palazzo le avesse svegliate da un sonno secolare. Si sarebbe detto, ora, che esse volessero inchinarsi silenziosamente, avendo cura che il fruscio delle loro vesti non le tradisse. Le labbra sembravano muoversi, per rinchiudersi prima ancora che avessero emesso un suono, le dita contrarsi, i volti sollevarsi per subito dopo riprendere la loro rigidità, quasi che trattenessero il respiro e facessero arrestare i battiti del loro cuore non appena lo sguardo dei due viventi si portava di sfuggita su di esse.